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IL MEZZOGIORNO E LA QUESTIONE MERIDIONALE

Quando finirà per il Mezzogiorno il tempo delle chiacchiere? Dopo aver ascoltato cosa Draghi è venuto a proporre a Napoli parlando di questione meridionale – una barca di soldi spalmati su vent’anni destinati solo alle città metropolitane – penso francamente che per il Movimento sia giunta l’ora di affrontare, di riproporre e di riparlare della "questione meridionale" con dati di fatto, partendo dall'analisi della situazione economica attuale del Mezzogiorno e dagli investimenti previsti dal PNRR. Con riferimento a questo secondo punto, la Commissione Europea con il «Next Generation EU» – comunemente chiamato «Recovery Fund» – ha stanziato 750 miliardi di euro in totale per superare la crisi economica derivante dalla pandemia e per la ripartizione dei fondi tra gli Stati membri ha definito quattro criteri:

1. popolazione
2. reddito pro-capite
3. tasso medio di disoccupazione negli ultimi 5 anni
4. perdita cumulata di Pil periodo 2020-2021

In base a questi criteri all’Italia in una prima fase sono stati attribuiti circa 209 miliardi di euro, la fetta più importante dell’ammontare totale. Da rilevare che se il criterio fosse stato soltanto quello della popolazione l’Italia avrebbe ricevuto 97,5 miliardi di euro mentre gli altri 111, 5 miliardi di euro sono stati attribuiti all’Italia perché il Mezzogiorno ha un reddito pro-capite medio di 17mila euro rispetto ai 33mila euro del Centro-Nord e registra un tasso di disoccupazione del 17% rispetto al 7,6% del Centro-Nord. Poi, tra tagli e aggiunte varie, si è arrivati ad una somma complessiva di 248,64 mld di euro: saranno 235,28 mld di euro quelli da spendere suddivisi in sei missioni strategiche, cui si aggiungono ulteriori 13,00 mld di euro da gestire per la mobilità nel Mezzogiorno. In linea con i criteri dettati da Bruxelles, il 70% dei fondi europei avrebbe dovuto essere destinato al Mezzogiorno a cui, invece, a conti fatti saranno riservati solo 94,55 mld di euro, compresi quelli statali aggiuntivi per la mobilità, pari al 38,12% sul totale. Questi numeri indicano chiaramente la natura classista del governo Draghi, proiettato a sostenere la grande impresa del Nord rendendo il Mezzogiorno attrattivo e fruibile solo per alimentare quell'economia.
Non un euro investito per reindustrializzare il Mezzogiorno che nella crisi paga il conto più salato. Perché alla forte caduta del reddito, dei consumi interni e dell’occupazione, allo smantellamento del tessuto produttivo già limitato e poco orientato all’esportazione, si associa l’ingente riduzione della spesa pubblica e un aumento della pressione fiscale. Il taglio della spesa pubblica colpisce non solo gli investimenti ma anche settori sociali essenziali, a cominciare dalla sanità e dall’ istruzione, con conseguenze valutate di lungo periodo sull’economia e sulla vita civile. I dati clamorosi sull’abbassamento dell’aspettativa di vita, sulla riduzione della popolazione, sulla disoccupazione, sulla povertà squadernano di fronte a noi gli effetti di una autentica macelleria sociale a cui è stato sottoposto il Mezzogiorno dalle politiche neoliberiste, dentro un circuito recessivo che continua. L’intervento pubblico per il Sud che, nonostante i suoi storici limiti, segnava l’esigenza di un riequilibrio dello sviluppo nazionale è stato, da molto tempo, archiviato ed anzi rovesciato. In questi anni si è registrato un gigantesco spostamento di risorse pubbliche dal Sud al Nord del Paese, sono stati presi i soldi al Sud e spostati alle regioni del Centro Nord, precisamente circa 35 miliardi di euro prelevati dai fondi FAS. I tagli, operati in tutti i settori, dall’università alle opere pubbliche, hanno privato sistematicamente le regioni meridionali di fondi per progetti già in programma. Il Sud è diventato un mercato di consumo, un territorio deprivato, campo libero per speculatori come dimostrano tante vicende, a cominciare da quella tragica della Terra dei fuochi. In questo quadro si rafforza il potere delle mafie, sempre più organicamente connesse ai centri economico-finanziari, sempre più capaci di condizionare le istituzioni e che dal Sud si irradiano stabilmente su tutto il territorio nazionale. Invece di affrontare i nodi reali il governo ha fatto opera di propaganda come dimostra, tra l’altro, la stanca riproposizione del Ponte sullo stretto che rappresenta un’offesa per un territorio che non ha strade e ferrovie dignitose e che sconta un grave dissesto idrogeologico. Tutto ciò ha provocato una allarmante spaccatura del Paese, allargando il solco tra il Nord e il Sud e aumentando distanze e incomprensioni.
Ormai da anni è ripreso un flusso di emigrazione dal Sud al Nord, protagonisti di questa nuova ondata migratoria sono i giovani diplomati e laureati, i migliori cervelli, il cui abbandono blocca qualsiasi possibilità di trasformare il Mezzogiorno: la conseguenza di un ulteriore allargamento della precarietà, dell’insicurezza e del disagio sociale. Oggi la nuova questione meridionale si intreccia con una drammatica “questione giovanile” e cioè di un tema che riguarda le forze di cui dispone il Mezzogiorno e che possono essere messe a disposizione di un progetto nuovo di rilancio del nostro Paese. Nel Sud la disoccupazione è raddoppiata negli ultimi anni e tocca il 17,9%, mentre tra i giovani la disoccupazione raggiunge ormai il 70 %, circa il doppio della media nazionale attestata al 35,3 %. Dietro questi numeri c’è la vita di milioni di persone, di un’ intera generazione di ragazze e ragazzi e la grande speranza, per la quale dobbiamo spendere l’impegno e la lotta del nostro Movimento è quella che i giovani possano formarsi nelle scuole e nelle università del Sud e in seguito avere la possibilità di trovare, in questa terra, un lavoro adatto alle loro possibilità e ai loro studi. Quest’obiettivo va perseguito con una lotta coerente ed incessante, una lotta che non può non essere politica e non avere connotati di classe e che respinga, innanzitutto, il tentativo di rappresentare la questione meridionale come una mera questione criminale che si affronta con la militarizzazione del territorio. Il Sud è una grande comunità di 20 milioni di cittadini, ricca di storia, cultura e potenzialità che paga i prezzi di antiche ingiustizie e di moderne diseguaglianze, ma che può essere una ricchezza straordinaria per il futuro se si batte l’idea che esso serva solo come grande area di consumo dei prodotti del Nord. L’unica carta vera, che questo Paese ha a disposizione, è la carta del Mezzogiorno che deve essere sempre più considerato come la grande risorsa per il futuro dell’Italia, non più, come invece è avvenuto in questi anni, un peso per l’Italia sviluppata. Torniamo dunque a parlare di questa grande indicazione politica, di questa scelta di fondo che si chiama Questione Meridionale. Ciò serve al Sud, serve al Nord, serve all’Italia. Ci vuole una svolta profonda: occorre promuovere un grande piano di investimenti pubblici verso il Mezzogiorno, aumentando seriamente l’impegno dello Stato, un nuovo flusso di finanziamenti legato ad un vero e proprio progetto per il Mezzogiorno principalmente nei settori primario e secondario che contempli una nuova industrializzazione, il potenziamento di reti e di infrastrutture, un piano per la difesa del suolo, interventi per la riqualificazione ambientale e urbana, la valorizzazione delle produzioni agricole tipiche, il rilancio dell’artigianato, la valorizzare dei beni culturali, lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili, ma anche del terziario con uno sviluppo più deciso del turismo fondato sulle risorse del territorio. Nonostante le difficoltà economiche e le note debolezze strutturali, infatti, il tessuto produttivo primario meridionale ha un peso rilevante in Italia e nell’UE, soprattutto nel manifatturiero, settore chiave per la sua economia che sostiene le esportazioni, valorizza l’immagine del Paese quale portatore di eccellenza, qualità e tradizione a livello internazionale. Sono infatti quasi 95.000 le imprese meridionali impegnate nelle produzioni manifatturiere, un quarto delle 378.000 imprese italiane, un numero considerevole nel contesto nazionale ma anche europeo. Infatti, se l’Italia è al primo posto in Europa per numerosità di imprese manifatturiere, volendo posizionare nel ranking dei paesi europei anche il Mezzogiorno, questo si posizionerebbe all’ottavo posto, tra Regno Unito (136.720) e Slovacchia (77.954), mantenendo un degno confronto con gli altri paesi europei. L’importanza del settore manifatturiero meridionale poggia sull’attrattività internazionale dei suoi prodotti di eccellenza, in particolare sulle filiere Agroalimentare, Abbigliamento-Moda, Automotive, Aeronautico e Bio-Farmaceutico che assumono rilevanza sia per il peso sull’economia interna sia per il contributo al sistema economico nazionale ed internazionale, sia per l’elevato effetto indotto. Mezzogiorno, quindi, non è un’area povera d’industria perché chiare sono le vocazioni produttive che lo caratterizzano, ma occorre valorizzarne la competitività in un contesto sempre più globalizzato, puntando sulle cosiddette strategie dinamiche che consentono di operare con efficacia, stabilità dei comportamenti, successi sui mercati. La maggior forza del Paese passa per il processo di reindustrializzazione del Mezzogiorno, attraverso politiche infrastrutturali e creazioni di poli logistici che facciano di quest’area una terra di scambi mercantili con tutto il Mediterraneo e con l’Asia, soprattutto dopo il raddoppio del Canale di Suez che rivoluzionerà i traffici mondiali. Ormai il 60% del commercio mondiale riguarda l'Asia: la strategia cinese della "Via della Seta" – potenziata con la recente costituzione della Banca Asiatica per gli Investimenti – sarà decisiva per il Sud, visto come naturale approdo degli scambi mondiali che passano dal Mediterraneo: da questo punto di vista le nostre realtà portuali risultano favorite nella competizione con i porti dell'Europa del Nord. Per questo è vitale che si creino collegamenti autostradali, ferroviari e marittimi nelle città del Mezzogiorno, attualmente inesistenti.
Ma lo sviluppo sociale ed economico delle aree meridionali è anche strettamente legato al sostegno e alla valorizzazione del proprio patrimonio agroalimentare, in modo particolare nelle regioni ad economia agricola, quali la Puglia con l’olivicoltura, la Calabria e la Sicilia con l’agrumicoltura. L’esclusività di questi comparti rappresenta una risorsa immensa dovuta alla qualità dei prodotti in questione ed è, pertanto, necessario il loro rilancio perché stanno attraversando la crisi più grave degli ultimi decenni a causa di diversi fattori, tra i quali l’embargo dei prodotti agroalimentari imposto dalla UE alla Russia, il trattato UE-Marocco, il trattato UE-Tunisia, i cambiamenti climatici e senza voler calcolare i costi della logistica – che arrivano ad incidere fino dal 30 al 35% sul totale dei costi per frutta e verdura, secondo una analisi della Coldiretti – a seguito dell’aumento dei prezzi dei carburanti che hanno scatenato un effetto valanga sulla spesa, con un aumento dei costi di trasporto oltre che di quelli di produzione, trasformazione e conservazione.
Indispensabili e non più rimandabili, quindi, sono una serie di interventi strutturali da parte delle Regioni e del governo centrale che non può limitarsi a varare piani finanziari e circoscritti ad hoc, quali quello per le città metropolitane di cui ha recentemente beneficiato Napoli. Possibile avanzare una serie di proposte concrete alle istituzioni politiche e alle rappresentanze sindacali per salvaguardare ed incentivare il comparto agricolo:
• rivedere gli accordi comunitari UE-Marocco/UE-Tunisia, introducendo meccanismi di tutela relative alle importazioni extracomunitarie
• interventi sulle industrie di trasformazione succhi, per una politica dei prezzi più adeguata
• sostegno alla distribuzione tramite specifici accordi con la catena distributiva
• interventi straordinari sulla Tristezza Virus e Xylella
• creazione dei marchi di qualità
• piano giovani, premio a fondo perduto ai giovani che si organizzano in cooperative per la lavorazione della terra
• introduzione di idonei meccanismi per incentivare la formazione di consorzi dei piccoli produttori
• agevolazioni e benefici fiscali tra i quali: riduzione del costo dell’energia elettrica, dell’acqua a scopo irrigativo, e dei mezzi tecnici in genere
• incentivi per favorire l’ingaggio al fine di combattere il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori extracomunitari
Non meno importante è il valore del binomio cultura-turismo nel Mezzogiorno: il settore dei beni culturali da circa un decennio si inquadra in un contesto nazionale di vera e propria esplosione della domanda che rende sempre più affollate le strutture museali ed espositive di tutto il Paese, grazie ad un elevato consumo culturale dei residenti combinato con la dinamica del turismo internazionale, favorita anche da fattori geopolitici che negli ultimi anni hanno spostato il baricentro del turismo mediterraneo verso l’Italia. In questo dinamico contesto nazionale, il Mezzogiorno si contraddistingue per la dotazione di un ampio e diffuso patrimonio artistico e culturale, potenzialmente capace di attrarre, mantenere e sviluppare una forte domanda culturale nazionale e soprattutto internazionale. Tuttavia, l’offerta è tuttora largamente sottoutilizzata, proprio in considerazione del ricco patrimonio di cui essa dispone, e ciò può rappresentare una prospettiva straordinaria e irrinunciabile di nuova occupazione qualificata e di sviluppo sostenibile del territorio, soprattutto nella fase post pandemica. Il Mezzogiorno si presenta come un museo a cielo aperto, grazie alla presenza di alcune aree metropolitane, come ad esempio Napoli, che funge da vero e proprio «hub» della cultura con una grande stabilità di strutture disponibili al pubblico. Nella classifica delle prime dieci città con il maggior numero di testimonianze della ricchezza storica e culturale, architettonica e archeologica dell’Italia, la città di Napoli si colloca all’ottavo posto ed è prima nella classifica meridionale.
Concludendo, contro tutte le teorie liberali che hanno a lungo presentato la questione meridionale come un’espressione di arretratezza residuale, l’esperienza dimostra che essa è il prodotto, all’opposto, del mercato capitalistico e del suo sviluppo diseguale e combinato. Diventa importante e strategico, per superare la logica dello sviluppo diseguale, per contribuire concretamente al raggiungimento dell'equità territoriale ma anche sociale nel nostro Paese, organizzare forme di lotta per cambiare lo stato di cose presenti. È, però, anche vero che la diffusione del virus COVID-19 ha prodotto un devastante shock sull’economia globale e continuerà nei prossimi mesi a condizionarne pesantemente le aspettative di ripresa. Per il Mezzogiorno si prospetta un calo del Pil rilevante, sebbene inferiore rispetto al resto del Paese e per le imprese, in particolare per le PMI, è immediatamente emersa l’esigenza, per alcune, di sopravvivere al blocco e, per molte, di affrontare una forte riduzione dei ricavi. Tuttavia, la crisi può diventare una vera occasione di sviluppo per il Mezzogiorno se si considerano due fattori:
1. il ruolo strategico del Mezzogiorno nell’ambito di nuovi equilibri e tendenze delle catene globali del valore, per l’attrattività internazionale delle sue produzioni di punta anche e soprattutto nei mercati vicini e perché attraverso le ZES meridionali si possono attrarre i flussi provenienti dal Mediterraneo e, grazie alle interdipendenze settoriali con il resto del Paese, diventare perno di uno sviluppo di tutto il Paese
2. i meccanismi UE di salvaguardia che sono stati rafforzati e le misure adottate dal Governo che, grazie anche ad un temporaneo allentamento da parte della Commissione europea della disciplina sugli aiuti di Stato su numerose e significative categorie di intervento, sono state progressive e rilevanti.

Per debellare un sottosviluppo ultradecennale occorre una strategia complessiva e coerente volta ad ampliare la base produttiva e a rendere competitivo il contesto economico locale. La spinta deve essere forte, duratura e basata su un’ampia gamma di strumenti; per essere credibile ed efficace deve contare su un volume di risorse adeguato, nel rispetto dei vincoli di bilancio. Puntare su un’unica strada sarebbe errato: gli interventi devono agire sia sull’offerta, rafforzando la competitività del settore produttivo e l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, sia sulla domanda, sostenendo i redditi familiari.
Il ritardo economico del Mezzogiorno è al tempo stesso inaccettabile e ingiustificabile.
Inaccettabile perché non consente a un terzo della popolazione italiana di godere appieno di diritti, opportunità, prospettive che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini. La mancanza di lavoro sta inducendo persone giovani e preparate a emigrare, con costi economici e sociali che condizionano le prospettive di crescita e di progresso.
Ingiustificabile perché le ricchezze culturali, ambientali, di capacità produttive inespresse presenti nel Mezzogiorno possono e devono essere utilizzate per il rilancio dell’economia dell’intero Paese. Lo sviluppo dell’economia meridionale offrirebbe un mercato di sbocco, un volano di crescita anche per le produzioni di altre aree, avviando un circolo virtuoso di investimenti e crescita sia al Sud sia al Centro Nord.
Il raggiungimento di questi obiettivi è possibile. Vi sono azioni di politica economica – incentrate non solo sugli investimenti pubblici, ma anche sulla fiscalità e sul costo del lavoro, sull’innovazione, sul potenziamento del capitale umano, sulla valorizzazione dell’ambiente – in grado di collocare il Mezzogiorno su un più elevato sentiero di sviluppo. Queste azioni richiedono il buon funzionamento delle amministrazioni pubbliche, a ogni livello di governo. Soprattutto, richiedono che sia sradicato l’inaccettabile “triangolo illegale” – evasione, corruzione, criminalità – perché la sicurezza e il rispetto delle norme civili, penali e fiscali, sono prerequisiti irrinunciabili per la crescita e il progresso sociale, sui quali non è possibile transigere.

 




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