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FUORILEGGE LA «DOTTRINA DEL MARE» PIANTEDOSI

Il neo ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, vorrebbe vietare l'ingresso nelle acque territoriali italiane a due navi di organizzazioni umanitarie con a bordo oltre 320 persone perché sarebbero fuorilegge. Questo atteggiamento lo porterebbe a violare il diritto internazionale. Il ministro ha dichiarato: “Ho voluto battere un colpo per riaffermare un principio: la responsabilità degli stati di bandiera di una nave”. In quale fonte del diritto internazionale il neo­ministro dell’Interno Matteo Piantedosi abbia trovato questo principio, non è dato sapere. Sta di fatto, però, che tale convinzione è bastata all’ex capo di gabinetto di Matteo Salvini per valutare di impedire a due navi di organizzazioni umanitarie, con a bordo centinaia di persone in difficoltà soccorse nel Mediterraneo, l’ingresso nelle acque territoriali italiane. Una decisione che potrebbe portare il ministro in tribunale, esattamente come accaduto a Salvini, ancora sotto processo per il caso Open Arms. Quali sono i fatti? Nei giorni scorsi, le navi umanitarie «Ocean Viking» e «Humanity 1» hanno effettuato una serie di soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo, recuperando in totale più di 320 persone. Il ministro dell’Interno, intenzionato a prevenirne lo sbarco nei porti italiani, ha successivamente emanato una direttiva ai vertici delle forze di polizia e della Capitaneria di porto perché informino le articolazioni operative che il ministero degli Affari esteri, con note verbali alle due ambasciate degli Stati di bandiera (Norvegia e Germania), ha rilevato che le condotte delle due navi attualmente in navigazione nel Mediterraneo non sono “in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale”. Per comprendere la decisione del ministro possono risultare utili le dichiarazioni, giuridicamente discutibili, riportate su «La Stampa» laddove, secondo il ministro, le due navi sarebbero fuorilegge poiché “le operazioni di soccorso sono state svolte in modo sistematico in area Sar di Libia e Malta, informate solo a operazioni avvenute”. Cosa ripetutasi con l’Italia. Le ambasciate di Germania e Norvegia sarebbero state coinvolte in quanto, dato che le due imbarcazioni battono le bandiere dei due Paesi, dovrebbero consentire lo sbarco nei propri porti. Il ministro Piantedosi fa riferimento alla sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Hirsi, che secondo lui “ruotava attorno al principio che se un migrante sale su una nave in acque internazionali, tutto il resto è responsabilità del Paese di bandiera” ma che invece ribadisce il contrario, cioè che il Regolamento di Dublino non è applicabile a bordo delle navi. Le condotte delle due navi saranno valutate sulla base dell’art.19 della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sul diritto del Mare - Unclos, detta anche «Convenzione di Montego Bay» - che considera il passaggio di una nave come inoffensivo fino a quando “non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Sono molteplici gli aspetti secondo cui l’impostazione di Piantedosi sarebbe contraria alla normativa internazionale. L’articolo addotto dal ministro come base giuridica per la valutazione è già stato considerato inapplicabile dalla dottrina nei casi di soccorso umanitario, e che al centro della normativa internazionale sul soccorso in mare c’è, appunto, il soccorso: la tutela della vita umana, sopra tutto e prima di tutto. E quindi c'è il salvataggio, che può avvenire, contrariamente a quanto sostenuto dal ministro, anche senza notifica alle centrali di coordinamento dei vari Paesi. Questo perché ogni eventuale ritardo da parte delle istituzioni, sia esso involontario o volontario, potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza delle persone in pericolo di vita. Si tratta di un principio ribadito proprio dall’art.98 della suddetta «Convenzione Unclos» la cui menzione consente anche di trattare il tema della responsabilità in capo allo Stato di bandiera. Questo articolo afferma che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: 1) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa”. Una responsabilità c’è, dunque, ma solo per quanto riguarda l’assicurarsi che il soccorso avvenga, e avvenga il più velocemente possibile. La «Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare» (Solas) obbliga il comandante della nave a “procedere con tutta rapidità” nel soccorso “se possibile informando” i servizi di ricerca e di soccorso “del fatto che la nave sta effettuando tale operazione”. Anche l’affermazione del ministro Piantedosi sulla mancata notifica come causa di illegittimità, perciò, è smentita. La normativa internazionale, da questo momento, prevede che il coordinamento sia appannaggio degli stati costieri interessati. Bisogna comprendere i concetti di Sar e di Pos. Le zone «Search and rescue» (Sar) sono aree marittime di ricerca e soccorso, non per forza coincidenti con le acque territoriali di un determinato Paese, disciplinate dalla Convenzione internazionale di Amburgo (“Convenzione Sar”) del 1979. Quindi, per configurare la necessità di soccorso deve esserci situazione di pericolo. La convenzione Sar lo identifica con la nozione di distress, una “situazione in cui vi è la ragionevole certezza che una persona, nave o altra imbarcazione è minacciata da un pericolo grave e imminente e necessita di assistenza immediata”. In teoria, il coordinamento del soccorso è da attribuirsi allo Stato titolare della zona Sar in cui è avvenuto. Tuttavia, alla luce di quanto finora scritto, va da sé che venga assegnato di fatto al centro di coordinamento che per primo risponde alla richiesta. A questo punto, la Convenzione prevede, in capo all’autorità nazionale che ha assunto il coordinamento, di individuare il più vicino «Place of safety» (Pos) ovvero il luogo sicuro dove sbarcare le persone soccorse, e in cui cessano gli obblighi che il diritto internazionale prevede per lo Stato. Non quindi il porto più vicino, come spesso si sente dire motivando l’intenzione di respingere le navi in Libia o in Tunisia, e nemmeno un generico porto sicuro, ma un luogo fisico ritenuto sicuro dal punto di vista fisico e che consenta la presentazione di domanda di asilo. È per questo che, sebbene il primo porto sicuro non sia necessariamente nello Stato che ha effettuato il coordinamento, spesso la scelta ricade sull’Italia: né la Libia - la cui zona Sar è stata istituita ma presenta numerose criticità per la sua situazione politica interna e per le condizioni dei migranti nei centri di detenzione - né la Tunisia - in cui manca una legislazione sul diritto d’asilo - né Malta - strutturalmente inadatta a gestire grandi flussi di migranti e già complice di violazioni - soddisfano i requisiti sopra elencati. Ed è sempre per questo che il rifiuto di indicare un porto sicuro, come sta avvenendo in queste ore con le navi Ocean Viking e Humanitas 1, è considerato illegittimo, così come l’eventuale espulsione o sbarco in luogo non sicuro viola il principio del diritto internazionale di non respingimento. I respingimenti alla frontiera sono illegali: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, all’art.14, stabilisce il “diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni” mentre la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951 sancisce il principio di non-refoulement, ossia di non respingimento, affermando all’art.33 che “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.

(fonte: Linkiesta, 27 ottobre 2022)




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