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LA POLITICA ECONOMICA DI TRUMP: UN DISASTRO CHIAMATO SUCCESSO

Donald Trump ha affermato pubblicamente più volte che la sua amministrazione ha raggiunto risultati economici eccezionali, mai ottenuti prima, e tali risultati sarebbero ascrivibili ai provvedimenti di politica economica intrapresi da quando è stato eletto. Ma non tenendo conto della propaganda elettorale, i dati raccontano un’altra realtà, molto più problematica, che getta pesanti ombre sul futuro economico degli Stati Uniti. Il «Bureau of Labour Statistics» ha recentemente diffuso un’analisi sul tasso di creazione di posti di lavoro negli ultimi tre anni dell’amministrazione Obama e nei primi tre anni di quella guidata da Donald Trump. Il tasso medio mensile di creazione di posti di lavoro è stato di 224.000 unità negli ultimi 3 anni di Obama e di 182.00 nei primi 3 di Trump, il tutto con tassi di crescita economica simili. Pertanto, lungi dall’essere risultati eccezionali, appaiono conseguenza della crescita iniziata durante il periodo precedente con addirittura un rallentamento della crescita occupazionale mentre tutti gli altri indicatori del mercato del lavoro hanno un andamento in linea con la dinamica intrapresa nei periodi precedenti. Da sottolineare che la disoccupazione ufficiale è al 3,5% ma solo a causa delle metodologie di calcolo in quanto il tasso di disoccupazione reale dovrebbe considerare come disoccupato almeno un terzo di coloro che lavorano part-time, involontariamente, e anche coloro che sono disoccupati disponibili a lavorare indipendentemente da quanto tempo abbiano smesso di cercare lavoro: se si considerassero come disoccupate queste tipologie di persone il tasso di disoccupazione reale stimato nel 2019 sarebbe in realtà del 7,8%, molto lontano dalla piena occupazione ).Inoltre, molti dei posti di lavoro creati non forniscono sicurezza e stabilità di reddito ma sono per lo più lavori precari privi di assicurazione sanitaria e di indennità di disoccupazione. In numero dei lavoratori che hanno abitualmente solo un’occupazione part-time è in costante aumento dagli anni ’70 e durante la presidenza Trump è rimasto stabile ai suoi livelli massimi di sempre. Inoltre, c'è da considerare che 4.600.000 lavoratori part-time non riescono a trovare un lavoro a tempo pieno e non sono stati considerati disoccupati nonostante guadagnino 283 dollari a settimana, solo 14 dollari in più di quanto guadagnavano nel luglio 2002. Sebbene si possa dire che i salari siano mediamente aumentati, si deve sottolineare che il reddito medio dei lavoratori a tempo pieno è ancora al di sotto del livello del 1979 e per coloro che sono privi di un’istruzione universitaria i salari sono ancora al di sotto in termini reali rispetto ai livelli raggiunti alla fine degli anni ’70. E se è anche vero che i redditi medi sono aumentati, l’aumento è apparente più che concreto se si considerano sia i  fattori distributivi che quelli legati ai panieri di consumo: il reddito familiare medio è aumentato solo di 100 dollari all’anno dal 2000 e in molti Stati del c.d. «Rustbelt» - la zona maggiormente colpita dalla deindustrializzazione - è ancora al di sotto del livello del 2000. Di fatto la classe media sta continuando ad impoverirsi rapidamente perché l’aumento dell’indice dei prezzi al consumo colpisce in misura proporzionalmente maggiore i redditi medio-bassi. Il caposaldo della politica fiscale di  Trump è, nel solco della tradizione repubblicana, il taglio delle tasse ai segmenti ad alto reddito della popolazione. La motivazione è sempre la stessa:  il taglio delle tasse ai ricchi produrrebbe diversi effetti benefici per l’economia tra cui il rilancio degli investimenti privati dal lato dell’offerta ed il conseguente aumento dell’occupazione dal lato della domanda. Ma come è stato evidenziato sin da subito da centri studi indipendenti, se gli effetti sulla crescita sono incerti, sicuramente una siffatta strategia agisce ampliando le disuguaglianze in termini di distribuzione del reddito.  Nel 2019, a distanza di due anni dei tagli, la crescita economica è stata del 2,9%, come nel 2015, ma il peso delle tasse si è spostato ulteriormente sulla classe media. Le famiglie statunitensi appartenenti all’1% più ricco hanno accumulato complessivamente risparmi delle tasse pari a 35 milioni di dollari mentre il 40% degli adulti non ha a disposizione riserve emergenziali di neanche 400 dollari per far fronte ad una spesa imprevista. L’aumento delle disuguaglianze può generare crisi sociali dall’impatto economico distruttivo e se la crescita economica è rimasta invariata rispetto al periodo di Obama, il debito pubblico ha continuato a correre e all’inizio del 2020, prima della pandemia, aveva raggiunto 23,2 trilioni di dollari. Ma il contributo negativo delle politiche di Trump  si può osservare in termini di rapporto deficit/Pil che, proprio a seguito dei tagli fiscali del 2017, ha ricominciato a crescere passando dal 102,78% del quarto trimestre del 2017 al 106,68 del quarto trimestre del 2019. All’aumento del debito contribuisce in maniera decisiva l’aumento del Deficit Federale che è cresciuto costantemente durante l’intera presidenza Trump, in questo caso in controtendenza rispetto agli ultimi anni di Obama nei quali si stava riducendo: in sostanza si è confermata la tendenza che vede crescere il debito a seguito di tagli delle tasse, da Reagan in poi, considerando che il debito federale era il 31% del PIL nel 1981. A seguito della crisi finanziaria del 2008 l’intervento della FED è diventato sempre più incisivo. L’espansione del bilancio della Banca Centrale  statunitense, per quanto imponente, appare in linea quello delle altre grandi banche centrali delle economie mature in quanto l’arrivo di una nuova crisi ha reso necessario confermare gli interventi precedenti e proporne di nuovi, analogamente a quello che succede ora in Europa. Tra l’11 marzo e il 15 aprile 2020 la Fed ha acquistato attività finanziarie per il valore, senza precedenti, di 2 trilioni di dollari e i successi dei mercati azionari – che sono stati portati da Trump come il risultato della sua strategia – non convincono molti analisti che hanno parlato di “un’esuberanza irrazionale”. Le crisi non sono affatto eventi estemporanei e imprevedibili ma sono eventi che devono essere considerati nell’implementazione delle strategie di politica economica a lungo termine. Una crisi può avere natura esterna, come quella odierna di carattere globale, oppure può avere origine interna ad uno stato e trasmettersi agli altri e in  entrambi i casi bisogna ridurre la vulnerabilità dei sistemi economici per ridurne gli impatti potenziali. Trump ha presentato i propri risultati economici come straordinari, evidenziando la riduzione della disoccupazione, la crescita economica e i record macinati in serie dalla borsa. In realtà i dati evidenziano altro: l’aumento delle diseguaglianze economiche e sociali rappresentano un fattore di instabilità dalle conseguenze imprevedibili, i tagli delle tasse vengono di fatto trasferiti sul debito pubblico e l’intero processo di creazione di reddito appare sempre più dipendente dalla politica monetaria. I record della borsa nel periodo peggiore della pandemia non sono un segnale positivo, ma rappresentano la fuga degli investitori verso profitti a breve termine, sganciati dall’economia reale. Le diatribe commerciali intraprese da Trump con gran parte dei partner commerciali possono essere essi stessi fattori in grado, da soli, di scatenare una nuova crisi globale. Se l’obiettivo di Donald Trump era quello di ottenere una crescita economica superiore al 2% annuo, che il dato che storicamente garantisce la riconferma dei presidenti, possiamo dire che è stato raggiunto. Ma se guardiamo alla robustezza del sistema economico statunitense ed alla sua capacità di resistere in modo coeso ad eventuali shocks, si può affermare che non sarà la prima presidenza Trump ad essere ricordata per questo. L’opinione condivisa è che un deficit endemico di 1 trilione sia insostenibile (Rogoff 2019), il deficit del 2020 supererà i 4 trilioni.

(fonte: Economia e Politica, 14 settembre 2020)




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