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FISCAL COMPACT:UN VINCOLO DA SUPERARE

Il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance (Fiscal Compact) dell’Unione Europea fu firmato da 25 paesi il 2 marzo 2012 ed è stato un tema ricorrente del dibattito politico negli ultimi anni e probabilmente lo sarà ancora a lungo. Formalmente si tratta di un accordo europeo che prevede una serie di norme comuni e di vincoli di natura economica che hanno come obiettivo il contenimento del debito pubblico nazionale di ciascun paese: sostanzialmente è diventato sinonimo dell’austerità. Sia simbolicamente sia materialmente, il Trattato comportò la cessione di una fetta della sovranità economica di ogni paese a un ente sovranazionale, l’Unione Europea. Il  Fiscal Compact in questo senso non fu una novità assoluta, in quanto i suoi predecessori più importanti furono il Trattato di Maastricht, entrato in vigore il 1 novembre 1993, e il Patto di stabilità e crescita, sottoscritto nel 1997. Nel Trattato di Maastricht, fra le altre cose, erano contenuti i cinque criteri che ciascun paese avrebbe dovuto soddisfare per adottare l’euro, fra cui un rapporto fra deficit (cioè il disavanzo annuale di uno Stato) e il prodotto interno lordo (PIL) non superiore al 3% e un rapporto fra debito complessivo e PIL non superiore al 60%; nel Patto di stabilità e crescita del 1997 l’Unione Europea si dotò degli strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni agli Stati che non avessero rispettato i vincoli imposti nel 1993. Fra le molte cose contenute nel trattato, le più importanti sono quattro:

  1. l’inserimento del pareggio di bilancio, cioè un sostanziale equilibrio tra entrate e uscite, di ciascuno Stato in disposizioni vincolanti e di natura permanente preferibilmente costituzionale (in Italia è stato inserito nella Costituzione con una modifica all’articolo 81 approvata nell’aprile del 2012)
  2. il vincolo dello 0,5% di deficit “strutturale” (quindi non legato a emergenze) rispetto al PIL
  3. l’obbligo di mantenere al massimo al 3 per cento il rapporto tra deficit e PIL, già previsto da Maastricht
  4. per i paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 60 per cento previsto da Maastricht, l’obbligo di ridurre il rapporto di almeno 1/20esimo all’anno, per raggiungere quel rapporto considerato “sano” del 60 per cento. In Italia il debito pubblico ha sforato i 2000 miliardi di euro, intorno al 134 per cento del PIL. Per i paesi che sono appena rientrati sotto la soglia del 3 per cento nel rapporto tra deficit e PIL, come l’Italia, i controlli su questo vincolo inizieranno nel 2016.

Una delle norme più criticate è stata il vincolo del 3%, ritenuto da alcuni troppo basso per permettere allo Stato di indebitarsi per tagliare le tasse o finanziare investimenti e attività in favore della crescita. Ma la norma più contestata in assoluto è quella che prevede la riduzione del rapporto fra debito e PIL di 1/20esimo all’anno. Una “vulgata” politica molto ricorrente  in Italia sostiene che il Fiscal Compact  taglierebbe la spesa pubblica, in mancanza di una fortissima crescita economica, dai 40 ai 50 miliardi di euro all’anno per vent’anni: costringendo  a ridurre il rapporto tra debito e PIL di almeno 1/20esimo all’anno, l’Italia sarebbe costretta a fare ogni anno dolorosissime manovre di tagli esattamente da 40 o 50 miliardi di euro ogni volta. In realtà, come spiegato bene da esperti e analisti, il Fiscal Compact non “impone” nessun taglio della spesa pubblica né obbliga l’Italia a fare tagli anche solo vicini ai 50 miliardi all’anno: quello che le regole del Fiscal Compact ci impongono di ridurre è il rapporto tra il debito pubblico e il PIL. E questa manovra si può fare in due modi: ripagando il debito (agendo sul numeratore, per diminuirlo) oppure incrementando il PIL (aumentando il denominatore, per ridurre il rapporto).  A tal proposito le previsioni diffuse dalla Commissione Europea il 13 febbraio 2020 (prima dell’esplosione del coronavirus in Italia ed in Europa)  indicano che la crescita del PIL dell’area dell’euro rimarrà stabile all’1,2% nel 2020 e nel 2021 mentre per  l’Unione Europea nel suo insieme (27 Stati), prevedono che la crescita diminuirà marginalmente all’1,4% nel 2020 e nel 2021, rispetto all’1,5% registrato nel 2019. Il documento previsionale evidenzia come l’economia tedesca – benchmark in Europa – pur rallentando segnatamente nell’export, debole soprattutto del settore auto, investa sul futuro aumentando i salari e gli investimenti pubblici puntando sugli effetti positivi nel medio periodo; per converso, con riferimento all'Italia,  segnala una crescita del PIL nel corso del 2020 allo 0,3%, per poi risalire allo 0,6% nel prossimo anno. Il nostro Paese si posiziona, dunque, in fondo alla classifica dell’Unione Europea e con una economia sostanzialmente ferma, laddove Commissione ha dovuto rivedere al ribasso le previsioni rispetto a quelle effettuate nell’autunno del 2019, visto che allora si segnalava una crescita del PIL pari allo 0,4% per quest’anno e allo 0,7% per il prossimo. Necessario aggiungere che nel conto del rapporto tra debito e PIL, il riferimento non è il PIL reale bensì quello “nominale” cioè, in sostanza, il PIL reale più l’inflazione. Secondo l'indicazione finale diffusa dall'Eurostat, a febbraio 2020 l'inflazione dell'area euro ha registrato un incremento annuale dell'1,2%, in calo dall'1,4% di gennaio 2020 e dall'1,5% del 2019. Nell'Unione Europea  (27 stati) l'inflazione è stata pari a febbraio 2020 all'1,6%, in in calo dall'1,7% di gennaio 2020 ed uguale all’1,6% del 2019. La stima dei 50 miliardi di euro da tagliare per vent’anni non ha, quindi, alcun senso nemmeno se il governo decidesse di agire soltanto sulla riduzione del debito e non sulla crescita del PIL: riducendo il debito pubblico il numeratore del rapporto con il PIL si abbasserebbe, rendendo comunque necessario abbassare la cifra da tagliare ogni anno per ridurre il rapporto. Con i numeri appena citati, ed a maggior ragione in piena crisi da coronavirus, diventa necessario per l'Italia  lo sforamento dei parametri sul debito pubblico agganciato ad strategico un cambio radicale di politica economica che punti su massicci investimenti pubblici, aumenti la spesa pubblica ed incrementi le esportazioni, favorendo sull’aumento dei consumi. Un fardello, ad oggi, pesantissimo per qualsiasi governo.




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