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SALARIO MINIMO O SALARIO DEGNO?

Il “salario minimo” – di cui periodicamente si torna a parlare in attesa di trovare tempi e modi giusti per metterlo al centro della discussione politica – a me appare come una pericolosa trappola sociale. Infatti, se per aziende che sono al di sotto della soglia che verrà definita vorrebbe dire aumentare di poco le retribuzioni fino a quella stabilità come minima – che comunque sarebbe al di sotto del salario dei principali contratti dell'industria, tipo quello dei metalmeccanici – per tante altre aziende vorrebbe dire rendere legale il “sottosalario” già pagato o addirittura forzare la riduzione fino, appunto, ad allinearlo al “salario minimo”. Quindi, non assisteremo ad una uguaglianza al rialzo delle retribuzioni dei lavoratori ma ad un livellamento al ribasso, ad una generalizzazione della miseria: la prestazione di mano d’opera dei lavoratori verrebbe quindi stabilita dal “salario minimo” che via via porterebbe ad unificare tutti i salari a questo livello minimo e costringerebbe la stragrande maggioranza dei lavoratori a svendere così la propria forza-lavoro al minimo del suo valore. Quindi, invece di garantire un salario contrattuale a chi viene sottopagato, si darà un salario minimo a chi prende ancora un salario contrattuale per cui il salario minimo diventerebbe il salario massimo. Tra l’altro, il “salario minimo” porterebbe ad affossare definitivamente i contratti collettivi nazionali e la lotta nazionale per aumenti salariali, una richiesta da molto tempo avanzata dagli imprenditori e già in parte “recepita” dai sindacati confederali nel tentativo di dare più potere e più spazio alla contrattazione aziendale, impegnati inevitabilmente a mediare contingentati aumenti salariali a fronte di più flessibilità, più carichi di lavoro, più disponibilità a turni, riduzioni di pause, straordinari, più cumulo di mansioni, e, di conseguenza, meno salvaguardia della sicurezza, della salute dei lavoratori. Il “salario minimo” diventerebbe un modo per cristallizzare e rendere di fatto permanente la situazione di “sottosalariato” oggi diffusa dal momento che gli imprenditori, per bocca del presidente di Confindustria, non vogliono riconoscere neanche i salari contrattuali rimasti stabili da diversi anni e visto che il governo, non volendo agire drasticamente per richiedere aumenti salariali dovendo “garantire” i profitti delle aziende, preferirebbe stabilire una soglia minima comunque accettata ed abbondantemente al di sotto del pagamento della “merce forza-lavoro”. È impossibile, di fatto, aspettarsi da questo governo una politica di aumento salariale e di riduzione dell’orario di lavoro finalizzata – in uno con massicci investimenti pubblici – al rilancio dello sviluppo economico e dei consumi delle famiglie. In tutto questo, se nel pesante attacco ai salari, ogni manciata di euro in più per tanti lavoratori può essere vista come una boccata di ossigeno, per parte sindacale accettare questa logica significa legarsi mani e piedi all’evidenza che non sia più la lotta sindacale di classe l’arma della difesa delle condizioni di lavoro e di vita ma l’attesa e l’auspicio di concessioni di padroni e governo. Ma questa è una visione miope e perdente: nella storia della lotta di classe dei lavoratori, infatti, ogni miglioramento è stato strappato ed è stato possibile solo con la lotta creando per i padroni e per il governo un problema sociale a cui siano costretti a rispondere. In conclusione, qualunque sia il livello di fissazione del salario minimo orario, visto e considerato come questo inciderebbe in modo particolare su imprese piccole e piccolissime nel Mezzogiorno, caratterizzate in prevalenza da una conduzione familiare e costrette ad una forte competizione sui costi, bisognerebbe evitare che un innalzamento del costo del lavoro possa provocare fenomeni degenerativi di licenziamenti di massa oppure di false dichiarazioni di ore lavorate. Il dibattito in Parlamento, quando e se ci sarà, non consisterà in una passerella di interventi di tipo elettorale ma in un serrato confronto-scontro tra le forze politiche – ma anche tra quelle padronali e quelle sindacali – che potrebbe prendere in considerazione una fase transitoria per cui i costi per le imprese possano venire attutiti con l'introduzione da parte del governo di un credito di imposta, calibrato sui soli dipendenti beneficiari del salario minimo. Il rischio più grande resta, dal mio punto di vista e sempre citando Karl Marx, quello che “…un provvedimento del genere, qualora venisse adottato, porterebbe al risultato per cui, in base alle leggi economiche, il minimo garantito diventerebbe il massimo”. Su questo tema strategico si misureranno la forza politica e la capacità contrattuale di imprenditori e sindacati, ben sapendo questi ultimi che l’attuale Confindustria, che formalmente mostra distacco perché poco o nulla coinvolta dalla riforma, potrebbe farsi portavoce di un depotenziamento dei contratti collettivi nazionali nel tentativo di dare maggiore potere e maggiore spazio alla contrattazione aziendale, più facilmente orientabile. La Sinistra ha l'obbligo di ragionare prima di lanciarsi in operazioni velleitarie che potrebbero creare le premesse per un definitivo annientamento delle lotte sindacali e politiche delle salariate e dei salariati.




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