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REGOLAMENTO DI DUBLINO: CHE FARE?

La Presidentessa della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell'Unione 2020 ha testualmente detto: “Adotteremo un approccio umano e umanitario. Salvare vite in mare non è un'opzione. E quei paesi che assolvono i loro doveri giuridici e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta l'Unione europea... Tutti devono farsi avanti e assumersi la propria responsabilità.” prendendo atto delle dure ripercussioni che la crisi dei rifugiati, a partire dal 2014, ha proiettato sul Sistema Europeo Comune di Asilo ed in particolar modo sul Regolamento di Dublino, facendone emergere gravi carenze e difetti che hanno determinato un’importante frattura a livello europeo nella gestione dei flussi migratori e non solo. È questo uno dei motivi principali che ha spinto la Commissione europea a presentare, il 23 settembre del 2020, il «Nuovo Patto sulla migrazione e sull’asilo» nel quale, con il richiamo dei principi di solidarietà e di equa condivisione degli oneri, viene chiesto di promuovere una governance più forte ed integrata che renda la gestione degli arrivi più proporzionata, efficiente e sostenibile.

1. Regolamento di Dublino 

Il Regolamento n. 604/2013 – meglio noto come «Dublino III» – stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide. Tale normativa ha trovato una prima disciplina a livello puramente intergovernativo nella Convenzione di Dublino, un trattato internazionale firmato nel 1990 dagli allora 12 Stati membri della Comunità Europea ed entrato in vigore nel 1997, a sua volta confluita, a seguito di un processo di “comunitarizzazione” della materia, nella prima versione del regolamento (reg. 2003/343/CE) noto come «Dublino II». L’intenzione era quella di garantire ad un cittadino di un Paese terzo la possibilità di vedersi riconosciuto lo status di richiedente protezione internazionale, una volta raggiunto il territorio europeo in cerca di asilo. L’idea di base del Regolamento di Dublino è quella per cui la competenza ad esaminare la domanda di asilo debba ricadere su quello Stato che ha svolto un ruolo più significativo in relazione all’ingresso del richiedente nel territorio dell’UE. La stessa è determinata in virtù di criteri obbiettivi che rappresentano la parte centrale del sistema, e per il quali, sarà quindi competente:

  • lo Stato membro dove può meglio realizzarsi il ricongiungimento familiare del richiedente (artt. 8-11)
  • lo Stato membro che ha rilasciato al richiedente un titolo di soggiorno o un visto di ingresso in corso di validità (art. 12)
  • lo Stato membro la cui frontiera è stata varcata illegalmente dal richiedente, anche noto come criterio del primo ingresso illegale (art. 13)

Nonostante l’esplicita enunciazione del principio per cui si esige l’applicazione gerarchica dei criteri (art. 7, par.1), il terzo e ultimo ha finito per essere quello maggiormente applicato, probabilmente per la difficoltà di provare le condizioni richieste dai criteri precedenti. Questa circostanza ha causato conseguenze controproducenti nei confronti degli Stati membri posti alle frontiere esterne dell’Unione, i quali si sono trovati a dover gestire un numero considerevole di richiedenti con inevitabile collasso dei loro sistemi di accoglienza.

2. Fattori di crisi e i tentativi di riforma di Dublino III

Negli anni della crisi dei rifugiati, molto probabilmente per la posizione geografica e per la sua generosità nei confronti dei migranti, l’Europa si è trovata ad affrontare una significativa “sfida migratoria”; basti pensare che l’EUROSTAT registrava un flusso medio di 1.260.000 richiedenti asilo nel biennio 2014-2015, rispetto ai 525.000 degli anni precedenti. In questo scenario, i criteri del Regolamento di Dublino si sono rivelati asimmetrici dal punto di vista degli oneri da ripartire tra Stati membri. Ad aggravare una tale sproporzione è stato il deficit di solidarietà riscontrato tra gli stessi nella gestione dell’eccezionale pressione migratoria, contrariamente a quanto disposto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea nel suo Articolo 80, per il quale le politiche relative ai controlli delle frontiere, all’asilo e all’immigrazione devono essere governate alla luce dei principi di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra Stati. Alla luce di questi eventi, il ripensamento di Dublino è apparso necessario tanto che le istituzioni europee hanno sentito il bisogno di fornire risposte quanto più possibile immediate a sostegno dei paesi geograficamente più esposti. Ecco che il 13 maggio del 2015 la Commissione Junker presentava la «Agenda Europea Sulla Migrazione» tra le cui azioni immediate contemplava un meccanismo di ricollocazione temporanea. Lo strumento della ricollocazione temporanea, volto alla redistribuzione tra Stati membri di quote obbligatore di richiedenti protezione, è stato pensato per derogare alla rigida gerarchia dei criteri di Dublino e per ovviare agli effetti collaterali dello stesso, sulla ratio del principio di solidarietà. Istituito ufficialmente con le due decisioni del Consiglio del 14 settembre e del 22 settembre dello stesso anno 2015, lo strumento della ‘relocation’ ha incontrato sin da subito la ferma opposizione dei Paesi del blocco di Visegrád (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) da sempre promotori di una solidarietà a carattere volontario in ambito europeo e per questo motivo contrari ad una redistribuzione obbligatoria dei rifugiati. Sulla scorta del fallimento della ricollocazione temporanea, il 4 maggio del 2016, la Commissione proponeva una specifica rifusione del regolamento 604/2013. Tuttavia, questa iniziativa sembrava non convincere pienamente dal momento che, nel nuovo regolamento, venivano mantenuti i tanto criticati criteri di determinazione dello Stato membro competente. Per compensare questa scelta, veniva introdotto un meccanismo di equità correttivo, finalizzato a superare il deficit di solidarietà ed intensificare il “burden sharing” (condivisione degli oneri) prevedendone un’attivazione automatica nei casi in cui il numero delle domande di protezione presentate in uno Stato membro avesse superato una determinata percentuale di riferimento. Strumento analogo, seppur con alcune differenze, era presente nel successivo progetto di relazione sulla proposta di rifusione redatto dalla parlamentare europea Cecilia Wikström, votato dalla Commissione LIBE il 19 ottobre del 2017 e poi confermato dal Parlamento europeo in seduta plenaria a Strasburgo il 6 novembre seguente, dando prova dell’intenzione di avviare i negoziati con il Consiglio europeo. Quel progetto si presentava piuttosto innovativo dal momento che venivano abbandonati definitivamente i criteri del Regolamento di Dublino prevedendone al contempo dei nuovi fondati esclusivamente sulla sussistenza di legami “significativi" che il richiedente poteva vantare con il Paese di destinazione. In mancanza di tale legame, sarebbe entrato in gioco un meccanismo di ricollocazione permanente e automatico che, a differenza del precedente meccanismo correttivo di assegnazione pensato dalla Commissione europea, per la sua attivazione, non richiedeva il delinearsi di specifiche situazione di crisi o il raggiungimento di determinate soglie percentuali di domande di protezione. In questo modo il sostegno offerto agli Stati membri posti alle frontiere esterne sarebbe stato reale e concreto, attraverso l’individuazione “a monte” dello Stato competente. Tuttavia, all’inizio dei negoziati con il Consiglio europeo, la cui presidenza era detenuta in quegli anni dalla Bulgaria, questa istituzione elaborò un testo di compromesso tra la proposta del Parlamento e la posizione dei Paesi che fino a quel momento si erano mostrati riluttanti ad una riforma più solidale. Il progetto in questione si allontanava dalla logica propria del meccanismo di assegnazione correttivo proponendo, al contrario, misure di intervento limitate a “challenging circumstances” (situazioni critiche) oppure a  “severe crises” (grave crisi). Ma anche il cd. “compromesso della Bulgaria” è rimasto lettera morta a causa della ritrosia manifestata da numerosi Stati membri, analogamente a tutti i tentativi di riforma susseguitesi in quegli anni.

3. Il Patto europeo sulla migrazione e sull’asilo 

Nell’introduzione della comunicazione della Commissione europea del 23 settembre 2020 – “Un nuovo patto sulla migrazione e sull’asilo” – si sottolinea che “Il nuovo patto riconosce che nessuno Stato membro dovrebbe accollarsi una responsabilità sproporzionata e che tutti gli Stati membri dovrebbero contribuire alla solidarietà su base costante”. In un contesto ancora poco promettente, caratterizzato dalla persistente opposizione di alcuni Paesi che ha finito per bloccare ogni progetto di riforma, basti pensare al nodo più difficile da sciogliere della redistribuzione dei richiedenti, il risultato a cui dovrebbe pervenire la proposta non può dirsi scontato, dal momento che, seppur la necessità di riformare il sistema europeo comune di asilo, e con esso il Regolamento di Dublino, sia condivisa, i dubbi permangano sul come riformare. Nonostante il Nuovo Patto abbia apparentemente il pregio di rafforzare la ratio che fino a quel momento aveva accompagnato i vari tentativi di riforma, insistendo ancora sul ruolo centrale della solidarietà tra Stati membri attraverso la promozione di quella “solidarietà di fatto” lontana dai buoni ma fumosi propositi, la Commissione sembra tuttavia sfruttare l’intrinseca vaghezza del concetto di solidarietà proponendo di renderlo flessibile per lasciare ampi margini di discrezionalità agli Stati membri.

4. La proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione

L’aspetto più importante del Patto, nonché una delle principali ragioni per cui è stato elaborato, consiste nella tanto attesa riforma del «Regolamento di Dublino» laddove i criteri per la determinazione dello Stato membro competente non avevano fatto altro che destare opposizioni e preoccupazioni, in particolar modo da parte dei Paesi posti alle frontiere esterne, creando, per tali ragioni, una rilevante frattura a livello europeo nella gestione della crisi migratoria, alimentata a sua volta dalla ritrosia di alcuni Stati membri nel collaborare ai tentativi di riforma, per questo falliti. In questo senso la Commissione europea specificava di voler ritirare la sua prima proposta di rifusione del regolamento presentata nel 2016 e di sostituirla con il nuovo Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione. Tuttavia, questo aspetto della proposta è quello maggiormente criticato dalla dottrina dal momento che ha suscitato seri sospetti sull’effettiva novità della riforma. Infatti, dalla lettura della proposta del nuovo regolamento, emerge chiaramente come, la nota struttura di Dublino che si intende abrogare, e quindi i suoi criteri gerarchici con la tanto temuta regola del primo ingresso illegale, viene mantenuta, finendo per tradire quella carica di novità cui il Nuovo Patto doveva farsi portatore. L’intenzione è quella di compensare il mantenimento del criterio del primo ingresso con la previsione di un nuovo meccanismo di solidarietà destinato a rendere l’equità parte integrante del sistema di asilo soprattutto nella gestione degli arrivi irregolari, per evitare che singoli Stati membri siano lasciati soli e per provare a garantire, ancora una volta, un’equa condivisione delle responsabilità. Il meccanismo di solidarietà in questione obbliga tutti gli Stati membri a partecipare a “contributi di solidarietà” e riconoscendo loro la flessibilità di decidere se e in quale misura ripartire il proprio impegno, scegliendo tra la ricollocazione dei richiedenti o la sponsorizzazione dei rimpatri. La ricollocazione torna ad essere riproposta, seppur con delle differenze di presupposti applicativi. Essa poggia su una relazione sulla gestione della migrazione che la Commissione redige annualmente, la quale dovrà indicare, laddove uno o più Stati membri si trovino ad affrontare arrivi ricorrenti, il numero totale di richiedenti che dovrebbero essere ricollocati per assistere gli Stati in difficoltà, nonché il numero preciso che ciascuno Stato membro è tenuto a ricollocare sotto forma di contributo di solidarietà, calcolato attraverso una specifica chiave di distribuzione. Purtroppo, come già visto, la redistribuzione non è obbligatoria, ma gli Stati a questo punto sono messi nella condizione di scegliere in che modo offrire il loro sostegno. La scelta di insistere sul carattere volontario del meccanismo di solidarietà è senz’altro un punto di debolezza della proposta, in quanto non ha permesso l’introduzione del tanto auspicato ricollocamento obbligatorio. Secondo la Commissione europea, questa eventualità può essere controbilanciata dal dovere, in capo agli Stati che non vogliono ammettere alcun richiedente e che quindi non voglio essere coinvolti in alcuna redistribuzione, di collaborare con la sponsorizzazione dei rimpatri. La sponsorizzazione consiste nel fornire un sostegno allo Stato membro sotto pressione nel rimpatriare rapidamente coloro il cui soggiorno è irregolare, con assunzione di responsabilità da parte dello Stato sponsor laddove il rimpatrio non venga effettuato entro un periodo stabilito, essendo eventualmente quest’ultimo obbligato a trasferire nel proprio territorio le persone interessate. Il contributo in questione può assumere le forme più varie, che spaziano dalla consulenza in materia, all’assistenza logistica o finanziaria fino a ricomprendere la possibilità di assumere il ruolo di interlocutore politico con le autorità competenti dei paesi terzi in cui le persone devono essere rimpatriate, sfruttando le aree di influenza proprie di ciascuno Stato. È evidente come da una solidarietà per l’accoglienza si passa ad una solidarietà per i rimpatri, dove le ragioni di questa scelta sono mosse da un pragmatismo nato dal bisogno di trovare un compromesso che sia accettabile per tutti. La flessibilità del nuovo concetto di solidarietà finisce, tuttavia, per lasciare troppo spazio di manovra agli Stati membri causando la frammentazione della cooperazione europea e indebolendo la possibilità per l’Unione di realizzare pienamente una politica di immigrazione e asilo comune e integrata. Dalle considerazioni sopra svolte, può agevolmente dedursi che il Patto ha finito per ricevere, da parte della dottrina nonché dagli stessi Stati, più critiche che consensi. Non rappresenta assolutamente quella rivoluzione che molti si aspettavano. Il malcontento riguarda chiaramente la mancanza di cambiamenti sottostanti la strategia che l’Unione intraprende in materia di migrazione e asilo, ancora troppo improntata sulla logica dell’esternalizzazione. Nonostante la Commissione europea sottolinei, all’apertura della comunicazione, il bisogno impellente di solidarietà e condivisione delle responsabilità, lasciando trapelare preoccupazione per le tensioni esistenti tra le opinioni che ciascuno Stato membro ha della sua parte “equa” soprattutto quando si tratta di affrontare l’argomento della riforma del Regolamento di Dublino, con la scelta di dare priorità alle agende degli Stati membri, il Nuovo Patto persegue di fatto ed inevitabilmente un orientamento intergovernativo che corre il rischio di dare luogo ad un sistema, ancora una volta, basato su una solidarietà interstatale e asimmetrica. Nonostante sia stato pensato per “accontentare tutti”, il compromesso perseguito a tutti i costi dalla Commissione, non risolve i problemi alla radice dal momento che gli Stati di primo ingresso non possono dirsi in alcun modo soddisfatti sia per il mantenimento della logica propria di Dublino sia per il fatto di non essere riusciti ad ottenere le ricollocazioni obbligatorie. Le numerose difficoltà, che con lo stesso, avrebbero dovuto essere superate una volta per tutte, sono state in realtà aggirate con un Patto presentato come nuovo ma che, sotto un altro nome, continua a mantenere la stessa intelaiatura di quei provvedimenti della cui riforma si fa promotore.

 

 




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