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PER UNA NUOVA POLITICA ECONOMICA

Per il nostro Paese il 2020 è un anno orribile, non solo per l'impatto della pandemia da coronavirus ma anche, a seguire, per le conseguenze generate nel tessuto economico e sociale. Da un'indagine del Centro Studi di Unimpresa risulta che, anche in conseguenza del lockdown, c'è stato un forte incremento del risparmio  degli italiani. Il denaro ‘risparmiato’ ammonta, a settembre 2020, a quota 1.904 miliardi di euro – ben oltre il valore del pil – in aumento di quasi 122 miliardi di euro su base annua (+7%) e di 71 miliardi di euro (+4%) rispetto a febbraio scorso, all’inizio della pandemia. Più precisamente, nei “salvadanai” delle famiglie italiane ci sono più di 1.000 miliardi di euro mentre i “risparmi” delle aziende risultano essere quasi 365 miliardi di euro. A questi importi si aggiungono 314 miliardi di euro riconducibili ai fondi d’investimento, 74 miliardi di euro alle imprese familiari, 31 miliardi di euro alle onlus, quasi 20 miliardi di euro agli enti di previdenza, 13 miliardi di euro alle assicurazioni e 6 miliardi di euro ai fondi pensione. Le famiglie hanno accumulato, nei sette mesi considerati, oltre 28 miliardi di euro (+2,72%), nello stesso arco temporale la liquidità delle aziende è salita di 62 miliardi (+20,80%). In totale, si tratta di oltre 90 miliardi di euro, che sono stati sottratti al circuito economico e che, invece, sarebbero stati importanti per favorire la ripresa. Ma dove accantonano i loro soldi le famiglie? Dal report emerge che la liquidità depositata sui conti correnti è cresciuta su base annua del 9,99%, più 92,3 miliardi di euro in sette mesi mentre nei depositi vincolati, si è registrato un +15,2 miliardi di euro in un anno (+7,71%) e meno 426 milioni di euro  in sette mesi (-0,20%). La variazione è negativa per gli enti di previdenza che registrano meno 818 milioni di euro in un anno (-3,96%) e meno 368 milioni di euro  in sette mesi (-1,82%). Per le assicurazioni, si è passati a +999 milioni di euro in un anno (+7,76%) e -523 milioni di euro in sette mesi (-3,63%). Un lieve aumento si è registrato per la liquidità dei fondi pensione che registrano 407 milioni di euro in più in un anno (+6,65%) e 260 milioni di euro in più in sette mesi (+4,15%).  In più, nel periodo da  maggio a settembre di quest'anno, confrontato con gli stessi mesi del 2019, l'incidenza dei "nuovi poveri" per effetto dell'emergenza sanitaria passa dal 31% al 45%, secondo il  «Rapporto povertà» della Caritas, con una  particolare incidenza delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani e delle persone in età lavorativa. Secondo i dati diffusi da Istat,  nel mese di settembre 2020 si stima che l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, registri una diminuzione dello 0,7% su base mensile e dello 0,6% su base annua, da -0,5%. Non è possibile andare ad inflazione negativa laddove il Paese ha necessità di rilanciare lo sviluppo produttivo ed economico ma bisogna cambiare politica economica, partendo dal (rapido) rialzo del tasso di inflazione, per quello che può portare all'economia del Paese. Un tasso d’inflazione vicino ma non superiore al 2% viene addirittura auspicato dalla BCE e dalle banche centrali ed è ritenuto positivo perché indica buona salute per l'economia. Infatti una moderata inflazione è il sintomo che i consumi del Paese sono in rafforzamento e stanno alimentando la crescita, che i salari sono in aumento grazie a un mercato del lavoro solido, che la produzione risente di aumenti dei costi che riflettono un’economia in buona salute. Un’inflazione eccessiva, superiore al 2%, ma soprattutto un’inflazione negativa, ovvero deflazione, sono al contrario molto dannose per l’economia perché generano incertezza, sfiducia degli operatori, situazioni che possono determinare non ottimali comportamenti per il contesto economico. Se un’inflazione eccessiva può determinare, per esempio, un clima di sfiducia, generare un rialzo dei tassi di interesse e frenare gli investimenti o i consumi, un contesto di deflazione è ancora peggio perché porta all’immobilismo e induce imprenditori e consumatori a pensare che rinviare a un domani acquisti ed investimenti sia meglio che farlo oggi, dal momento che i prezzi e i costi scenderanno. E questo immobilismo genera un calo della crescita, conducendo quasi inevitabilmente alla recessione. Un’inflazione vicino al 2% è, inoltre, favorevole per i paesi con elevati stock di debito - e quindi per l’Italia - mentre la deflazione è molto negativa per lo stesso motivo in quanto lo stock di debito pubblico accumulato, e da finanziare con nuove emissioni di titoli obbligazionari, è solitamente a prezzi costanti e resta quindi invariato nel tempo mentre il calo del Pil avviene a prezzi correnti, in quanto composto da valori che vengono aggiornati, in questo caso negativamente, con l’inflazione. Ed oggi, il primo macigno che gli italiani trovano sulla loro strada è quello, pesante, del rientro del debito pubblico e quindi la riduzione del rapporto tra il debito pubblico e il Pil. Il governo, in questo frangente, potrà muoversi in due modi: (1) ripagare il debito, agendo sul numeratore per diminuirlo oppure (2) incrementare il Pil, aumentando il denominatore per ridurre il rapporto debito/Pil. Nel primo caso, limitandosi ad un taglio delle tasse per ridurre la pressione fiscale ma senza creare squilibri nella finanza pubblica, bisognerebbe operare veri e propri tagli alla spesa pubblica che renderebbero vani i piani economici del governo legati all’utilizzo dei soldi ricevuti dal «Recovery Fund» che vincola l’utilizzo delle risorse finalizzato agli investimenti pubblici laddove, segnatamente per il nostro Paese, questa strada deve essere percorsa con decisione anche per attivare investimenti privati con l’obiettivo strategico di rilanciare un deciso sviluppo produttivo. Nel secondo caso, l'unica via che oggi appare oggettivamente da percorrere, è proprio quella di gestire lo sforamento dei parametri sul debito pubblico mediante un utilizzo mirato dei fondi europei puntando ad un cambio radicale di politica economica. Al nostro Paese servono massicci investimenti pubblici che stimolino quelli privati, forte spinta all'esportazione, aumenti salariali che facciano risalire l'inflazione entro parametri gestibili, incremento della massima occupazione possibile per favorire la massiccia ripresa dei consumi delle famiglie italiane. Una nuova politica economica che rilanci la crescita del Pil, composto da valori che vengono aggiornati con l’inflazione, dovrà essere quindi (moderatamente) inflazionata, sospinta da un aumento del salario medio per favorire il riequilibrio degli indici di debito (Debito/Pil) che tenderanno a scendere e dovrà riuscire a sgretolare il grande timore per il futuro del Paese che attanaglia le famiglie italiane costringendole, di fatto, ad un eccesso di liquidità immobilizzata su conti correnti. L'Italia che vuole ripartire ha di fronte due sfide immani: incrementare il Pil, anche in rapporto al debito pubblico, e portare a regime l'economia rilanciando fortemente lo sviluppo produttivo. Ecco, quindi, che diventa ineludibile impostare una Nuova Politica Economica che - puntando anche su una corretta ed equilibrata gestione dei miliardi che arriveranno dal Recovery Fund - agisca sulla leva inflattiva e salariale, da un lato, e su quella dello sviluppo produttivo e dei consumi, dall'altro. Lo sviluppo produttivo, infatti, dipende dalla domanda che a sua volta dipende dal reddito, che è uguale alla produzione. Un effetto moltiplicatore: l'incremento della domanda fa aumentare la produzione;  l'aumento della produzione porta a un aumento del reddito dello stesso ammontare, dato che domanda e produzione sono identicamente uguali; la crescita del reddito aumenta ulteriormente il consumo che a sua volta genera un aumento della domanda e così via. Aumenti salariali e massima occupazione possibile devono necessariamente completare e dare impulso al necessario cambio di passo in politica economica. Se persisterà il clima di forte incertezza c'è il rischio di compromettere l’efficacia degli eventuali stimoli alla domanda e quindi comprimere ulteriormente il Pil, le cui variabili più importanti sono, appunto, i consumi in quanto parte più importante degli impieghi e gli investimenti perché rappresentano il potenziale produttivo del Paese.




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