Login

TERRE D'AFRICA, TERRE DI CONQUISTA: IMPERIALISMO

La locuzione inglese «land grabbing» – letteralmente «accaparramento della terra» – identifica un discusso fenomeno economico e geopolitico di acquisizione di terreni agricoli su scala globale, venuto alla ribalta nel primo decennio del XXI secolo. La questione che tale fenomeno solleva riguarda gli effetti di tali pratiche di acquisizione su larga scala nei paesi in via di sviluppo, che si realizzano mediante affitto, o acquisto, di grandi estensioni agrarie da parte di imprese transnazionali, governi stranieri, o singoli soggetti privati. Sebbene il ricorso a simili pratiche sia stato assai diffuso nel corso della storia umana, questo fenomeno di rapacità economica ha assunto una particolare rilevanza e connotazione a partire dagli anni 2007-2008, quando l'acquisizione di terre è stata stimolata e guidata dagli effetti della crisi dei prezzi agricoli registratasi in quegli anni dentro ed a seguito della più ampia crisi – di sovrapproduzione e finanziaria – che ancora oggi attanaglia l’economia mondiale e dalla conseguente volontà predatoria, da parte di alcuni Paesi, di assicurarsi la disponibilità di approvvigionamenti e di proprie riserve alimentari al fine di tutelare interessi nazionali nel campo della sovranità e della sicurezza nel campo dell'approvvigionamento alimentare. Questo fenomeno è stato definito da molti economisti borghesi come “nuovo colonialismo” ma la definizione non mi appare calzante: il termine esatto per definire questa vera e propria rapina è “imperialismo” cioè lo stadio più alto (avanzato) del capitalismo. Nell'accezione leninista l’imperialismo si contrassegnò per:
• la concentrazione degli strumenti di produzione e del capitale in una ristretta cerchia di proprietari con la conseguente formazione di monopoli
• la fusione del capitale bancario col capitale industriale, e il formarsi, in quanto capitale finanziario, di un'oligarchia finanziaria derivante dalla necessità per le imprese monopolistiche di dover reggere la concorrenza attraverso l'erogazione da parte degli istituti finanziari di ingenti somme di capitali
• la grande importanza acquisita dall'esportazione di capitali nel confronto con l'esportazione di merci e quindi il passaggio da quest'ultima, che caratterizzava la libera concorrenza, all’investimento soprattutto all’estero di eccedenze di capitali finanziari
• il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali (trust) per cui si determinano, a seguito della concorrenza tra loro e dello sviluppo ineguale del capitalismo, mutamenti continui delle relazioni globali tra i vari Paesi e la spartizione del mondo in zone d'influenza
• la compiuta ripartizione (geografica) della terra tra le più grandi potenze capitalistiche
Il capitalismo, anche oggi, richiede monopoli (del lavoro e dello sfruttamento delle risorse naturali) ed esportazione di capitale finanziario (piuttosto che merci) per sostenere il colonialismo che è, quindi, una funzione integrale dell’imperialismo. Parlare allora di neocolonialismo è, probabilmente, eccessivo, anche perché nel XXI secolo le terre straniere non vengono più conquistate con le armi ma comprate con i dollari: l’imperialismo, è un fenomeno davvero pervasivo. I motivi per i quali un’impresa compra un appezzamento di terreno all’estero, facendo pensare ad una sorta di riedizione del colonialismo europeo ma confermando nei fatti – attualizzata – la prassi imperialista, sono i più vari: sfruttamento delle risorse naturali, coltivazione di prodotti agricoli, ma anche per costruire villaggi turistici o intere città.
Secondo uno studio del Parlamento europeo diverse società registrate in Francia e nel Regno Unito sono state coinvolte, rispettivamente, in acquisizioni di 40 e 124 appezzamenti di terreno, acquisendo il controllo di 629.953 e 1.972.010 ettari di terreno in vari paesi al di fuori dell'UE; le imprese registrate in Belgio, Paesi Bassi e Italia non sono da meno, con 20 operazioni ciascuna, per un totale che va dai 251.808 ai 615.674 ettari di terreno. Nel complesso, i dati dell'associazione «Land Matrix» riportano che 182 società basate nell'UE sono coinvolte in 323 operazioni al di fuori dell'Europa, e queste operazioni sono avvenute in 52 paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina e hanno contratto un totale complessivo di 5.837.504 di ettari di terreno per una vasta gamma di scopi che vanno dall'agricoltura, all'allevamento alla produzione di biocarburanti. Lo studio del Parlamento denuncia che per quanto riguarda il diritto umano all'alimentazione “molte operazioni distruggono direttamente o in parte la possibilità di produrre o raccogliere il proprio cibo e garantire un'adeguata nutrizione alle popolazioni locali”, e ciò vale anche per le risorse idriche “utilizzate come zone di pesca e per le aree forestali che forniscono frutta e vengono utilizzate per la caccia”. Inoltre diverse acquisizioni “mettono a rischio il diritto all'abitazione” e sono la causa in generale di violazioni dei diritti umani. L’organizzazione non governativa «Grain» ha pubblicato una lista dei Paesi africani che hanno maggiormente subito questo fenomeno negli ultimi quindici anni e tra questi ci sono Liberia, Guinea, Ghana, Congo, Sierra Leone, Nigeria e Senegal con porzioni di terreno ceduti che vanno da 500.000 fino a circa 1.700.000 di ettari (Liberia). Sono tantissime le aziende europee che stanno sostenendo in maniera massiccia il fenomeno del «land grabbing». Importante rilevare che dopo Regno Unito e Francia c’è proprio l’Italia che, con 17 imprese, possiede 615.674 ettari di terreno. Le nostre imprese acquistano terreni soprattutto per un motivo, lo sfruttamento di risorse naturali, e lo fanno, anche loro, soprattutto in Africa: nell’elenco delle aziende che possiedono terreni all’estero ci sono, ad esempio, Agrioils, Arkadia, Avia che hanno comprato terreni in Ghana, Tanzania e Mozambico per produrre biocarburanti ma c’è, soprattutto, l’Eni che, per lo stesso scopo, ha comprato terreni in Mozambico, Angola e Congo. Tra le 17 aziende tricolori che hanno comprato terre nell’Africa orientale e occidentale ci sono anche imprese di cui si sente poco parlare come la Tozzi (in Madagascar), la Tampieri (in Senegal), la Sogein e la Maccaferri (in Mozambico). Il ritornello xenofobo del “non sono razzista ma...” dispensato da Salvini e da nazionalisti e sovranisti di ogni tipo si accompagna spesso alla litania “aiutiamoli a casa loro” e così il problema sembra rimosso. Ma come li stiamo aiutando a casa loro? Gli interessi economici delle imprese italiane nel continente africano sono consistenti. Superati il XIX e il XX secolo la matrice della rapina coloniale si ripropone in nuove forme, per conto ad esempio dell’Eni o di Impregilo. La scia di morte e corruzione arriva fino in Italia, basta ricordare che nel giugno dell’anno scorso sono stati arrestati un legale dell’Eni e un magistrato siciliano, ed altri sono indagati, che dietro compenso aprivano false indagini per colpire i concorrenti del colosso energetico italiano. L’aiuto supposto che diamo ai popoli del terzo mondo “a casa loro” diventa un problema in casa nostra. Il fenomeno del "land grabbing" cresce soprattutto nel continente africano e spesso tramite accordi segreti stipulati tra acquirenti e autorità di governo locali. Da questa spartizione non sono esenti i cinesi che in ottocentomila vivono e lavorano in Africa dove hanno acquistato oltre 2.000.000 di ettari di terreni e detenengono ormai il monopolio del rame in Zambia, controllano anche il commercio di petrolio in Sudan e Angola, e del legname in Mozambico. L’imperialismo sembra tutt’altro che tramontato, il commercio estero con l'Africa ne è ancora profondamente impregnato. I governi africani esportano materie prime in cambio di prodotti industriali e manufatti, a detenere i rapporti con i Paesi industrializzati sono prevalentemente Sudafrica, Algeria, Angola e Nigeria. Complessivamente il commercio estero dei paesi africani rappresenta solo il 3% del volume totale degli scambi mondiali ed è rivolto soprattutto a Paesi dell'Unione Europea, degli Stati Uniti e di Paesi asiatici. Eppure l'Africa è il continente più ricco di risorse minerarie che, se fossero completamente sfruttate da imprese nazionali non sottomesse direttamente o indirettamente ai capitali finanziari di Paesi imperialisti o socialimperialisti, sarebbero in grado di liberare molte popolazioni dalla miseria e dal sottosviluppo. Si può dire che il futuro dell'economia africana è legato allo sfruttamento delle sue miniere, dal momento che nel suo territorio è presente la gamma di minerali più ampia del mondo eppure la proprietà dei maggiori e più redditizi giacimenti – in un continente che detiene l'80% della produzione mondiale di diamanti, il 70% di cobalto, il 50% di oro – è in prevalenza controllata da società straniere.

Salerno, 27 gennaio 2019




Template per Joomla!®: Themza - Design: Il gatto ha nuove code