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IL REGOLAMENTO DI DUBLINO

 

Il “sistema di Dublino” è stato firmato nella capitale irlandese, da cui prende il nome, il 15 giugno 1990, ed è entrato in vigore il 1 settembre 1997 per i primi dodici stati firmatari (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Regno Unito) e poi, a seguire, il 1 ottobre 1997 per Austria e Svezia e il 1 gennaio 1998 per la Finlandia.
Il «regolamento di Dublino II» (regolamento 2003/343/CE) fu adottato nel 2003 e sostituì la «convenzione di Dublino» in tutti gli Stati membri dell'UE con l'eccezione della Danimarca, la quale oppose un “out-out” sui regolamenti di applicazione in materia di spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Successivamente, un accordo con la Danimarca sull'estensione dell'applicazione del regolamento anche in tale paese è entrato in vigore nel 2006, insieme al protocollo separato che aveva esteso l'accordo a Islanda e Norvegia.
Il 1 marzo 2008 le disposizioni del regolamento sono state estese anche alla Svizzera, che il 5 giugno 2005 aveva sottoposto a referendum per la ratifica (votata dal 54,6% dei voti), e al Liechtenstein.
Un ulteriore protocollo è stato siglato per l'applicazione in Danimarca.
Il regolamento di Dublino II determinava lo Stato membro dell'Unione europea competente a esaminare una domanda di asilo o riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra (art. 51).
Esso rappresentava la pietra angolare del sistema di Dublino, costituito dal «regolamento Dublino II» e dal «regolamento Eurodac» che istituiva una banca dati a livello europeo delle impronte digitali per chi intendeva presentare richiesta di asilo e per chi entrava irregolarmente nel territorio dell'Unione Europea.
Il regolamento mirava a determinare con rapidità lo Stato membro competente per una domanda di asilo e prevedeva il trasferimento di un richiedente asilo in tale Stato membro.
Lo Stato membro competente all'esame della domanda d'asilo diventava lo Stato in cui il richiedente asilo aveva fatto il proprio ingresso nell'Unione europea.
Ancora oggi uno degli obiettivi principali del «regolamento di Dublino» è impedire ai richiedenti asilo di presentare domande in più Stati membri (cosiddetto asylum shopping) ed un altro obiettivo è quello di ridurre il numero di richiedenti asilo "in orbita" cioè che sono trasportati da Stato membro a Stato membro.
Tuttavia, poiché il primo Paese di arrivo è incaricato di trattare la domanda, inattiva una pressione eccessiva sui settori di confine, dove gli Stati sono spesso meno in grado di offrire sostegno e protezione ai richiedenti asilo.
Attualmente, coloro che vengono trasferiti in virtù di «Dublino» non sempre sono in grado di accedere a una procedura di asilo e questo mette a rischio le garanzie dei richiedenti asilo di ricevere un trattamento equo e di vedere le proprie richieste d'asilo prese in adeguata considerazione.
L’obbligo di prendere le impronte digitali ed il legame definitivo del migrante al Paese di primo approdo – punto focale del « Dublino II» è un principio che risale al 1 settembre 1997, quando andò in vigore l'originaria «Convenzione di Dublino».
Quell'anno in Italia era giunta un'ondata di migranti albanesi – scatenata dallo scandalo finanziario cosiddetto delle «piramidi» – che per la prima volta non fu affrontata dal governo dell'epoca (primo ministro Romano Prodi) ma lasciata sostanzialmente gestire dalla Caritas e dalle parrocchie, prevalentemente pugliesi.
Quella prima convenzione firmata a Dublino stabiliva una serie di criteri di assegnazione ai vari paesi dei richiedenti asilo in possesso di documenti, poi regolamentava cosa fare nei confronti degli irregolari («art.6: se il richiedente l'asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l'esame della domanda di asilo è di competenza di quest'ultimo Stato membro»).
Il «regolamento di Dublino III» (2013/604/CE) è stato approvato nel giugno 2013, in sostituzione del «regolamento di Dublino II» e si applica a tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca; è entrato in vigore il 1 gennaio 2014.
Si basa sullo stesso principio sancito dai due precedenti regolamenti: il primo Stato membro in cui vengono memorizzate le impronte digitali o viene registrata una richiesta di asilo è responsabile della richiesta d'asilo di un rifugiato.
In particolare, il «regolamento di Dublino III», definisce criteri e meccanismi di uno Stato membro dell’Unione Europea per l'esame di una domanda di protezione internazionale; ovvero, definisce quale Stato deve farsi carico della richiesta di asilo di una persona giunta in territorio europeo.
Attraverso il sistema Eurodac, usato per confrontare le impronte digitali, vengono registrati i dati e le impronte di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di un Paese membro o presenti richiesta di protezione internazionale.
Questa banca dati consente quindi di stabilire, confrontando le impronte, se un richiedente asilo o un cittadino straniero, che si trova illegalmente sul territorio di uno Stato, "ha già presentato una domanda in un altro Paese dell'Ue o se un richiedente asilo è entrato irregolarmente nel territorio dell'Unione" (come si legge sul sito dedicato alla normativa europea).
Con la presentazione della domanda di protezione internazionale in un Paese europeo, se in base al racconto del richiedente o ad altri elementi, come le impronte, emergono dubbi sulla competenza si apre una fase di accertamento (“Fase Dublino”) che sospende l'esame della domanda.
A questo punto, individuato il Paese dove il richiedente asilo è già stato segnalato, le autorità chiedono alle autorità dell'altro Stato di farsi carico della domanda: se la risposta sarà positiva, sarà emesso un provvedimento di trasferimento verso quel Paese con il conseguente spostamento del richiedente.
Lo Stato competente è quindi obbligato a prendere in carico il richiedente che ha presentato richiesta di protezione in un altro Stato: ad esempio, un cittadino straniero entrato in maniera irregolare in Italia e poi arrivato in Germania – dove presenta richiesta di asilo – dovrebbe essere trasferito in Italia.
La parte più critica del testo è quella che attribuisce l'esame delle domande di asilo e l'accoglienza del richiedente allo Stato di primo ingresso nella UE, determinando un carico di lavoro importante per i Paesi cosiddetti di confine, tra cui l’Italia.
Tra le ipotesi in campo, di cui si discute da mesi ma ora neanche più col mutato scenario politico europeo, c'è anche quella di alcuni Stati che vorrebbero abbandonare il criterio di primo ingresso, suddividendo i richiedenti fra tutti i membri in base a un sistema di quote.
All’inizio del 2018 la portavoce per le Migrazioni della Commissione europea, in merito alla possibilità che entro la fine della presidenza bulgara del Consiglio dell’Unione Europea (1 luglio 2018) non venisse trovato un accordo sulla riforma della convenzione, aveva fatto sapere che "stiamo dando tutto il nostro sostegno alla presidenza bulgara" per "tentare di raggiungere un compromesso".
Il 5 giugno 2018 a Lussemburgo si sono riuniti, da ultimo, i ministri dell’interno dell’Unione Europea per discutere della riforma del regolamento di Dublino e sul tavolo c’era proprio la bozza presentata dalla Bulgaria, una proposta giudicata da molti notevolmente peggiore rispetto a quella della Commissione Europea approvata il 27 novembre 2017 dal Parlamento europeo con una larga maggioranza.
Cosa proponeva la proposta approvata il 27 novembre 2017 dal Parlamento europeo con una larga maggioranza?
Il criterio del primo paese di accesso viene sostituito con un meccanismo permanente e automatico di ricollocamento secondo un sistema di quote, a cui sono tenuti a partecipare obbligatoriamente tutti gli stati membri dell’Unione europea. “È la prima volta che ci arriva un segnale positivo per quanto riguarda il sistema comune d’asilo, che non va in una direzione esclusivamente restrittiva” – spiegava Gianfranco Schiavone, esperto della normativa europea dell’asilo e vicepresidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) – “Siamo di fronte a un vero e proprio cambiamento di paradigma rispetto al passato, rispetto all’approccio che l’Europa ha avuto verso il tema dal 1990. In questa riforma ci sono due cambiamenti che impongono una rivoluzione: il primo è la fine del legame tra il primo paese d’ingresso in Europa e la domanda d’asilo”.
La riforma prevede (a distanza di quasi due anni è ancora in piedi) che la competenza dell’esame della domanda d’asilo venga decisa in base a un principio di solidarietà, in conformità all’articolo 80 del trattato dell’Unione europea.
A questa riforma si oppongono i Paesi dell’Europa Orientale facenti parte del “gruppo di Visegrad” (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) che hanno espressamente chiesto il confronto direttamente nell’aula del Consiglio Europeo.
Cosa modificava la proposta presentata dalla Bulgaria?
La presidenza bulgara aveva provato a sbloccare la situazione presentando una “bozza zero”che è stata accusata di ridurre ancora di più la solidarietà verso i Paesi di sbarco; nel testo erano ancora presenti le quote obbligatorie, ma queste sarebbero scattate solo in caso di “grave crisi” (180% della quota di capienza) mentre sarebbero state solamente volontarie qualora la quota di capienza avesse raggiunto il 160%.
Il criterio applicato dalla Bulgaria era stato quello del ‘fair share’: la cifra di rifugiati che ogni Stato membro avrebbe dovuto accogliere, con l’esclusione dei migranti economici, sarebbe stata stabilita sulla base degli arrivi dell’anno precedente, tenendo conto anche di popolazione e PIL.
La proposta bulgara prevedeva anche un incremento delle responsabilità per i Paesi di primo ingresso: per un periodo di 10 anni avrebbero avuto l’obbligo di riprendersi i richiedenti asilo che nel frattempo si fossero trasferiti altrove nell’UE, in base al principio della ‘responsabilità stabile’.
Infine, anche le sanzioni verso chi rifiuta l’accoglienza venivano drasticamente ridotte, scendendo da 250mila a 30mila euro per ogni richiedente asilo respinto.
Alla luce di questa proposta ma anche di fronte ad una vera e propria “accozzaglia” di ministri che pur con motivazioni diverse si sono opposti alla riforma di Dublino III si è chiamata fuori anche la Germania alla luce del blocco dei paesi di Visegrad e dell’Europa del Sud, Italia compresa.
L’incontro di Lussemburgo del 5 giugno 2018 ha fallito il suo principale obiettivo che era quello di concordate e condividere una proposta di modifica del regolamento di Dublino.
Il segretario di Stato tedesco Stephan Mayer, al suo ingresso al consiglio Affari interni di Lussemburgo, aveva affermato che Berlino era “aperta ad una discussione costruttiva. Ma com’è attualmente non la accettiamo” e gli aveva fatto eco il ministro alla migrazione svedese, Helene Fritzon: “L’Europa ha bisogno di un’intesa sulla riforma di Dublino, ma con le elezioni delle destre in Europa oggi è un problema raggiungere un compromesso. C’è un clima politico più duro. Non si tratta solo dell’Italia, ma anche della Slovenia”.
Suonava definitivamente la campana a morto il segretario di Stato belga responsabile delle Migrazioni, Theo Francken che così sintetizzava la situazione: “La riforma del regolamento di Dublino è morta”.
La conclusione della discussione – molto dura – è stata chiara: vista l’opposizione frontale dell’Italia (“un rifiuto più categorico che mai prima”) e quella della Germania di lavorare sul testo e quella dell’Austria, Francken sostiene che si vada verso “un ribaltamento totale dell’approccio”.
Dal nuovo governo italiano – ha detto Francken – “mi aspetto una stretta sulla migrazione. Penso che sia positivo se l’Italia inizia a rifiutare i migranti sulle proprie coste, e non li lascia più entrare in Sicilia”.
Francken auspicava anche che si trovasse un modo per poter tornare a fare i respingimenti: “Dal 2012 non possiamo più farli, e finché è così, la situazione continuerà ad essere caotica. Dobbiamo rimandarli indietro. Quindi dobbiamo cercare di aggirare l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. La giurisdizione dovrà seguire questa linea, perché altrimenti non ci sarà più la Corte europea. Penso che alcuni non capiscano esattamente cosa sta accadendo in Europa. La gente deve lasciare le proprie torri d’avorio e guardare la realtà”.
Gongolava il ministro Salvini secondo cui quello che è successo al vertice in Lussemburgo “è una vittoria per noi. Avevamo una posizione contraria ed altri Paesi ci sono venuti dietro, abbiamo spaccato il fronte. Significa che non è vero che non si può incidere sulle politiche europee”.
Già da tempo aveva annunciato che la posizione dell’Italia sarebbe stata dire “no alle nuove politiche di asilo perché lasciano soli i Paesi del Mediterraneo, Italia Spagna, Cipro e Malta”.
In tarda serata arrivava una dura risposta al segretario di stato belga, Francken e, indirettamente, anche a Salvini, da parte del commissario europeo, Dimitris Avramopoulos: “L’Ue non seguirà mai il modello australiano per la politica migratoria, non facciamo i respingimenti, perché la nostra politica è guidata dal principio del rispetto dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra. Non saremo la fortezza Europa”.
L'ultimo incontro, quindi, per tentare di modificare (come previsto, all'unanimità) il trattato di Dublino si è svolto il 5 giugno 2018.
Stando così le cose l’Europa è in una pericolosa posizione di stallo nei confronti del problema relativo ai flussi migratori ed a pagarne le conseguenze saranno sempre donne ed uomini che scappano da ingiustizie sociali e guerre cercando lavoro e pace ma ritrovandosi ancor più stritolati da ingiustizie sociali e guerre tra poveri.
Esseri umani lentamente sterminati dall’infamia e dall’ignavia dei governi europei impegnati, tutti, solo ad arricchire le proprie borghesie.

Salerno, 30 giugno 2019

 

 

 

 

 

 

 

 




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