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LA TEORIA DEL PLUSVALORE

Soltanto nell'ed. francese del Capitale si trova il capitolo 1 dedicato al “processo lavorativo” ovvero alla “produzione dei valori d'uso”. E' un capitolo strano, che sarebbe stato meglio inserire nel capitolo 2 della I sezione, laddove si parla del “duplice carattere del lavoro”, benché qui l'interesse prevalente di Marx sia già rivolto al lavoro “astratto”.

Messo invece nella III sezione, questo capitolo ha un senso che si fatica alquanto a comprendere. Ormai infatti il lavoro finalizzato al valore d'uso è stato surclassato dal denaro trasformato in capitale, il quale privilegia il lavoro salariato, volto alla produzione per il mercato.

Un capitolo di questo tipo non avrebbe neppure avuto senso se collocato nella sezione dedicata al salario, poiché esso parla del “processo lavorativo indipendentemente da ogni determinata forma sociale”(p. 211).

Dunque la ragione che deve aver spinto Marx a inserirlo in questa sezione non può aver nulla a che vedere con lo schema generale dell'opera, con l'organicità della divisione delle sezioni e dei capitoli. Esso, in effetti, sembra più che altro costituire una sorta di risposta (filosofica, o meglio, antropologica) a una inevitabile obiezione che già la I sezione suscitava relativamente alla poca chiarezza con cui Marx aveva saputo distinguere, nel lavoro umano, la parte “istintiva” da quella “consapevole”.

Marx qui esordisce sforzandosi di precisare ciò che differenzia l'uomo dall'animale. Nelle prime due sezioni, infatti, essendo dominate dal primato del valore di scambio, tale differenza si era persa di vista. L'uomo appariva come succube di un meccanismo oggettivo, indipendente dalla sua volontà, cui doveva adeguarsi anche facendo leva sul proprio istinto. Qui invece Marx punta su concetti di tipo filosofico, come “fine”, “coscienza”, “ideale”...

“Innanzi tutto il lavoro è un processo che avviene tra l'uomo e la natura...”(ib.). E' già un inizio sbagliato. Parlare del lavoro a prescindere “da ogni determinata forma sociale”(ib.) è come parlare del lavoro di un singolo separato da altri singoli: il che è antistorico.

L'uomo che “media, regola e controlla con la sua azione il ricambio organico tra sé e la natura”(ib.), è per Marx una sorta di Robinson che vive in un'isola deserta dopo essersi emancipato dalla sua “rozza” comunità primitiva. “Qui infatti non dobbiamo considerare -dice Marx- le prime forme di lavoro, animalesche e istintive”(p.212).

L'uomo delle comunità primitive viene considerato da Marx alla stregua di un “animale” incapace di trasformare se stesso. Singolare è il fatto che, secondo Marx, quest'uomo ha smesso d'essere primitivo proprio rapportandosi alla natura: “coll'agire tramite questo movimento sulla natura esterna e col trasformarla, egli trasforma allo stesso tempo la sua propria natura”(ib.). Cioè in pratica l'uomo primitivo può trasformare se stesso non tanto rapportandosi alla natura, quanto, nel rapportarsi alla natura, uscendo dalla comunità primitiva, quella stessa comunità che, pur avendo l'identico rapporto con la natura, non riesce a rendere “umano” l'uomo. Infatti, se vi riuscisse, sarebbe impossibile spiegarsi, nell'ideologia marxiana, come, rapportandosi alla natura, l'uomo ad un certo punto smetta d'essere istintivo e diventi consapevole di sé.

Per Marx il lavoro consapevole non è quello che nello stesso tempo si rapporta alla natura e al collettivo, ma quello che supera i limiti di quest'ultimo valorizzando i pregi del singolo, il quale si rapporta in modo individuale alla natura.

Il pregio fondamentale del singolo è il seguente: “al termine del processo lavorativo vien fuori un risultato che, al suo inizio, era già implicito nell'idea del lavoratore, che perciò era già presente idealmente”(ib.). L'uomo collettivo non “pensa”, ma agisce istintivamente, al pari degli animali. Solo separandosi dal collettivo, l'uomo si differenzia dall'animale.

A parte questo, Marx non riesce assolutamente a spiegare come, rapportandosi alla sola natura, e non anche al collettivo, l'uomo giunga ad avere coscienza di sé, visto e considerato che è proprio sulla base di tale autoconsapevolezza che l'uomo “non opera soltanto un mutamento di forma dell'elemento naturale [al pari dell'animale], ma contemporaneamente realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza, che determina come legge la maniera del suo agire...”(ib.).

Qui non si tratta di risolvere il problema dell'uovo e della gallina. Ciò che è grave è che Marx ha omesso di precisare che il concetto di “fine” trova la sua ragion d'essere, in prima e ultima istanza, nel rapporto sociale tra uomo e uomo, aldilà del quale non è assolutamente possibile non solo distinguere l'aspetto istintivo da quello consapevole, nell'essere umano, ma neppure l'attività umana da quella animale.

Non c'è nessun “ricambio organico” tra uomo e natura che possa sostituire o produrre il rapporto sociale tra uomo e uomo. E' in questo e solo in questo rapporto che si può cogliere la differenza tra uomo e animale. Differenza che -come già più volte si è detto- riposa sul concetto di libertà.

Viceversa, per Marx, come per B. Franklin (che viene citato), l'uomo è “un animale che fabbrica strumenti”(p.215). “L'impiego e la creazione di mezzi di lavoro, sebbene in germe si trovino in alcune specie animali, caratterizzano lo specifico processo lavorativo umano...”(ib.). La differenza, in sostanza, è solo quantitativa, anche se per Marx -sulla scia dell'idealismo hegeliano- le determinazioni quantitative ad un certo punto portano a una nuova “qualità”.

Peraltro, se si afferma che lo specifico dell'attività umana (che si suppone lavorativa) è il lavoro, si cade nella tautologia. E' giusto affermare che “le epoche economiche si distinguono non per quello che viene prodotto, ma per come, con quali mezzi di lavoro, viene prodotto”(ib.). Ma è sbagliato precisare che “i mezzi di lavoro...servono pure ad indicare i rapporti sociali nel cui ambito è effettuato il lavoro”(ib.).

In realtà è vero il contrario: sono i rapporti sociali e il senso del valore in cui essi si manifestano (che non è solo per un uso socio-economico: sussistenza, riproduzione ecc., ma per un uso vitale più globale) a farci capire il “come” generale della vita lavorativa e il “perché” la scelta sia caduta su determinati mezzi e strumenti lavorativi.

Questo naturalmente significa che quando una formazione sociale o un'epoca economica viene tragicamente distrutta, nei suoi rapporti sociali, da un'altra epoca o formazione, diventa molto difficile risalire al contenuto di valore ch'essa viveva partendo dagli strumenti produttivi che si sono conservati e che successivamente sono stati raccolti e depositati in qualche museo. Il passato può essere capito solo se il presente, pur mutando i mezzi di lavoro ereditati, ha conservato, in qualche modo, lo “spirito” di cui essi erano espressione.

In caso contrario è utopico pensare che un processo lavorativo possa conservare i valori d'uso prodotti da “precedenti processi lavorativi”(p.217). Non è per nulla vero che “l'unico mezzo per conservare questi prodotti di lavoro passato e per realizzarli come valori d'uso...” sia quello di metterli a contatto “con il vivo lavoro”(p.219). La memoria del valore d'uso non dipende semplicemente dal lavoro, ma dalle scelte che l'uomo compie in riferimento al senso generale della sua vita e soprattutto al modo particolare di vivere il valore della libertà.

Per distinguere l'uomo dall'animale non è neppure sufficiente puntare sul fatto che il prodotto del processo lavorativo “è un valore d'uso, materiale naturale reso conforme a bisogni umani per mezzo del mutamento di forma”(p.216). Forse che gli animali non hanno dei “bisogni”? Forse che essi, sulla base di questi bisogni, non si costruiscono dei “valori d'uso”? Si può forse affermare che il loro lavoro è un semplice “mutamento di forma” e che quando incontrano dei problemi su questa strada non riescono con la loro intelligenza a trovare nuove soluzioni?

Marx, pur rendendosi conto che per recuperare la differenza tra uomo e animale doveva sottolineare l'importanza della produzione di valori d'uso, poiché essa presuppone un “fine consapevole”, ha fallito il suo tentativo, anche perché, essendo partito, nella I sezione del Capitale, dal riconoscimento del primato del valore di scambio, egli non poteva più ritrovare la memoria del valore d'uso, che è sempre legata a una formazione sociale determinata, storicamente situata e certamente di tipo pre-capitalistico.

Non a caso Marx tenta di recuperare il valore d'uso solo in maniera astratta, cioè nel rapporto generico che l'uomo ha con la natura, e tralascia completamente la possibilità di reperire dei valori d'uso nella comunità di autosussistenza. Per Marx la produzione di valori d'uso sganciata da quella per il mercato, appartiene all'epoca “animalesca” dell'uomo.

Naturalmente Marx è consapevole che l'individuo non coincide sic et simpliciter con il lavoro che svolge. Ad un certo punto egli non può fare a meno di accennare alla differenza tra “consumo produttivo” (il quale “consuma i prodotti come mezzi di sussistenza del lavoro, vale a dire della forza lavorativa in atto dello stesso individuo”), e “consumo individuale” (il quale “consuma i prodotti come mezzi di sussistenza dell'individuo vivente”)(p.219).

Con ciò in pratica Marx ribadiva la differenza tra individuo biologico e sociale, ovvero che il concetto di esistenza non può essere inteso solo in quell'aspetto che accomuna l'uomo all'animale. Ciononostante egli non riesce a spiegare, se non dandolo per scontato, il motivo per cui “il risultato del consumo individuale è il consumatore stesso”(pp.219-20). Di fatto, se c'è una cosa che non fa l'interesse del consumatore è proprio il consumo “individuale”, separato da quello “sociale”, separato soprattutto dal significato collettivo del consumo sociale.

A forza di analizzare il processo lavorativo “nei suoi semplici ed astratti movimenti”(p.220), Marx è finito col cadere, contro le sue stesse intenzioni, in una serie di ingenuità davvero singolari: 1) il lavoro -egli afferma- “è l'attività che ha per fine la produzione di valori d'uso”(ib.), mentre nel capitalismo la produzione principale è quella di valori di scambio; 2) il lavoro è “adattamento degli elementi della natura ai bisogni dell'uomo”(ib.), mentre nel capitalismo tanto la natura quanto i bisogni sono finalizzati unicamente al profitto, per cui non solo si alimentano “falsi bisogni”, ma si trasforma anche la natura in un mero “oggetto di consumo”; 3) il lavoro è “condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura”(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è così alienato dalla natura che il ricambio organico dell'uomo avviene solo attraverso il “macchinismo”, cioè tramite tutti quegli strumenti artificiali che mediano il suo rapporto con l'ambiente; 4) il lavoro è “perenne condizione naturale dell'umano esistere”(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è vissuto nelle condizioni più “innaturali”, poiché per taluni è “dolce far niente”, per molti è “duro sfruttamento”, per altri è “tragica emarginazione”, infine per non pochi è dovere di conservare con la “forza” questo stato di cose.

E' stato un errore non aver considerato “il lavoratore in rapporto ad altri lavoratori”(ib.), poiché se è vero che “non ci si accorge dal sapore del grano chi l'ha coltivato”(ib.), è anche vero che chi conosce, come Marx, le leggi dello sfruttamento, non si mette a tavola prima d'aver saputo da dove proviene il grano che mangia.

Ormai la teoria del plusvalore, elaborata da Marx, è diventata la cosa meno importante del marxismo, e non perché – come direbbe un popperiano – essa non è suscettibile di confutazione, ma proprio perché, nell'ambito del capitalismo, la sua confutazione è impossibile. E' come se in campo astronomico si avesse la pretesa di rimettere in discussione la teoria copernicana.

La teoria del plusvalore, che mette in luce l'oggettività scientifica dello sfruttamento capitalistico, era già stata elaborata in Per la critica dell'economia politica; la stessa redazione delle Teorie sul plusvalore, considerata come il IV volume del Capitale, precede quella del I volume.

Durante la stesura del Capitale, Marx era così padrone di questa teoria che già alla fine della II sezione l'anticipa completamente nelle sue linee essenziali, mentre nella III sezione la espone in modo dettagliato. Con una precisione sconosciuta all'economia classica, Marx afferma che il plusvalore è prodotto dall'operaio perché il costo della sua forza-lavoro (la capacità lavorativa) non corrisponde al suo valore d'uso.

Come ogni altra merce infatti, la forza-lavoro ha un costo stabilito “in base alla quantità di lavoro incorporato nel suo valore, al tempo di tempo socialmente necessario alla sua produzione”(pp.223-4). Quindi il capitalista, sul mercato, al momento della contrattazione, paga il prezzo che occorre solo alla riproduzione della forza-lavoro, ovvero paga unicamente “il valore giornaliero della forza lavorativa”(p.222), riservandosi nello stesso tempo la facoltà di usarla in fabbrica oltre il prezzo pattuito. Egli sa bene infatti che “lo specifico valore d'uso di questa merce è quello di essere sorgente di valore e di un valore più grande di quanto ne possieda essa stessa”(p.232).

“Il fatto che occorre una mezza giornata lavorativa per farlo vivere ventiquattro ore, non impedisce per niente all'operaio -dice Marx- di lavorare per un'intera giornata. Perciò il valore della forza lavorativa e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze diverse”(ib.). E' la stessa differenza che passa tra il suo valore di scambio (sul mercato) e il suo valore d'uso (in fabbrica).

Il plusvalore quindi è un furto legalizzato sul valore d'uso della forza-lavoro: “il fatto che il valore creato in una giornata dall'uso [della forza-lavoro] superi del doppio il suo stesso valore giornaliero, questa è una fortuna particolare per l'acquirente, ma non è per niente una ingiustizia nei confronti del venditore”(p.233).

Ora, il problema fondamentale che questa teoria suscita non sta tanto nella fondatezza dello sfruttamento economico che si verifica in fabbrica, e che si verificherebbe anche se a livello sociale (previdenza, assistenza, sanità ecc.) l'operaio fruisse di particolari servizi, quanto piuttosto sta nel fatto che Marx dà per scontato che il capitalista, sul mercato del lavoro, paghi effettivamente la spesa per produrre la forza-lavoro: cosa che se non avvenisse -lascia intendere Marx- si ritorcerebbe contro gli interessi dello stesso capitalista.

Non avendo messo in discussione il primato del mercato, del valore di scambio, della merce ecc., ora Marx non può che limitarsi a considerare giusta la contrattazione e ingiusto il lavoro salariato, nel quale si genera un plusvalore non pagato. Lo sfruttamento della forza-lavoro avviene, per Marx, nel momento in cui l'operaio entra “nell'opificio del capitalista”(p.222). Il lavoro salariato viene rifiutato solo dal punto di vista del plusvalore, o meglio: solo perché esiste un'appropriazione privata del plusvalore che non è quella del lavoratore.

Per Marx “la trasformazione del modo di produzione tramite la subordinazione del lavoro al capitale...”(p.221), non è un presupposto ma una conseguenza del lavoro salariato. Naturalmente Marx non ha mai sostenuto che la contrattazione sul mercato del lavoro potrebbe anche avvenire senza lavoro salariato, però il suo ragionamento porta a questa conclusione. Che poi è stata, in un certo senso, la conclusione del “socialismo reale”, il quale, statalizzando l'intera proprietà, aveva impedito la formazione di un mercato del lavoro capitalistico, anche se, nei fatti, non aveva potuto eliminare la necessità di tenere bassi i salari. La contrattazione stava nel fatto che in cambio di questi salari lo Stato garantiva la gratuità di certi servizi o il blocco di molti prezzi. L'esperimento è fallito anche per questa ragione economica: il plusvalore realizzato nella proprietà statale non tornava al lavoratore che in misura ridotta.

Qui Marx si limita ad affermare che “in un primo momento il capitalista deve prendere la forza lavorativa come la trova sul mercato, e così deve prendere anche il lavoro che essa ha portato a termine, come s'era sviluppato in un periodo in cui non esistevano ancora capitalisti”(ib.).

Il che in pratica vuol dire: anzitutto, che il costo della forza-lavoro, cioè il tempo di lavoro “socialmente necessario” per riprodurla, è determinato dalla consuetudine, ovvero dalla tradizione lavorativa di una determinata società: cosa di cui il capitalista deve prendere atto; in secondo luogo, anche le modalità operative dell'operaio non possono essere, nell'immediato, completamente modificate dal capitalista: “la natura generale del processo lavorativo non muta certo perché l'operaio l'effettua per conto del capitalista invece che per conto proprio”(ib.).

Marx, tuttavia, non si rende conto di fare delle considerazioni alquanto astratte. Parlare di “tempo di lavoro socialmente necessario alla riproduzione della forza lavoro” potrebbe andare bene in una società basata sull'autoconsumo, dove l'elemento “sociale” o “socializzante” è deciso da tutta la collettività. Viceversa nel capitalismo il tempo di lavoro è “sociale” solo nella misura in cui coincide con gli interessi del capitale. Non è un tempo deciso dalla collettività. Al massimo è un tempo deciso dal mercato, ma qui -come noto- sono gli interessi privati del proprietario dei mezzi produttivi che dettano legge. Ciò che Marx con qualche difficoltà ammetterebbe, poiché nella sua ideologia il mercato è superiore all'autoconsumo. Se vogliamo, al capitalista la riproduzione della forza-lavoro ai livelli della sussistenza indispensabile non interessa più della mera esistenza della stessa forza-lavoro: gli è infatti sufficiente questa per rimpiazzare la forza-lavoro incapace di riprodursi o quella la cui riproduzione non è così indispensabile.

Se il capitalista fosse preoccupato di garantire la minima riproduttività alla forza-lavoro, considerata in senso lato, non sarebbe un capitalista, ma, ai propri occhi, un “benefattore dell'umanità”. Di fatto, la riproduzione è un diritto che il lavoratore, soprattutto in regime di monopolio, deve rivendicare ogni giorno, altrimenti il capitalista tenderà a ridurre il costo della manodopera salariata anche al di sotto del minimo vitale di sussistenza. E tanto più lo farà quanto più il mercato del lavoro offrirà la possibilità di sostituirla (vedi del cap.XXIII la parte relativa al cosiddetto “esercito industriale di riserva”).

Sotto tale aspetto va detto che il capitalista è unicamente interessato alla riproduzione della forza-lavoro di livello superiore, che esercita un lavoro più complesso, di una maggiore importanza specifica. Tesi, questa, che Marrx rifiuta categoricamente, poiché, a suo giudizio, la “superiorità” di una forza-lavoro del genere non comporta un aumento assoluto del plusvalore ma solo un aumento proporzionato al costo della manodopera.

In realtà il valore di questa manodopera, in una società a capitalismo avanzato, è altissimo, e almeno per tre ragioni: 1) è difficilmente sostituibile, poiché il sistema scolastico-formativo dello Stato non è in grado di produrre operai o intellettuali qualificati: sia perché l'istruzione nazionale è separata dalla produzione industriale, sia perché l'istruzione di massa serve anche per contenere la disoccupazione; 2) è la stessa concorrenza intercapitalistica che impone un tasso elevato di know-how: la concorrenza avviene a livelli sempre più elevati e i primi monopoli ad impiegare le scoperte nel settore “sviluppo e ricerca” sono quelli che realizzano maggiori profitti; 3) i costi di una manodopera specializzata vengono facilmente ammortizzati in un regime di monopolio. Naturalmente qui si dà per scontato che la richiesta di manodopera qualificata parta da imprese le cui merci siano per un vasto mercato, altrimenti avrebbe ragione Marx allorché afferma che nell'Inghilterra del suo tempo il lavoro di un muratore occupava “un posto molto più alto di quello di un tessitore di damaschi”(p.239 in nota).

Lo sfruttamento quindi non avviene solo dentro la fabbrica, ma anche sul mercato, al momento della contrattazione salariale. Infatti, nel contratto (oggi sindacale) l'imprenditore, essendo l'unico a disporre di proprietà, esercita un ruolo predominante, a livello economico, rispetto a quello di ogni operaio che non si oppone politicamente al proprio stato di soggezione. Il valore di scambio della forza-lavoro non è mai effettivamente corrispondente al costo dei mezzi di sussistenza che le occorrono per riprodursi. Tant'è che il “proletariato”, per sopravvivere, è continuamente costretto ad abbassare il proprio tenore di vita, a lottare contro l'aumento dei prezzi, a cercare forme di sfruttamento clandestine, parallele a quelle contrattate ufficialmente, ad accettare modalità integrative del salario che spesso sconfinano nell'illecito, nell'illegale, nell'immorale ecc.

Che tutto ciò poi si verifichi di più tra le fila del proletariato “occidentale” o tra quelle del proletariato o sottoproletariato “terzomondista”, soggetto a sfruttamento coloniale e neocoloniale, la sostanza non cambia. Quanto più il proletariato occidentale rivendica un maggior valore di scambio della propria forza-lavoro, tanto più il capitalismo sfrutterà il valore d'uso della forza-lavoro terzomondista. E quanto più sfrutterà il valore d'uso di questa forza-lavoro, tanto più rischierà la disoccupazione quella forza-lavoro di livello medio e medio-basso che in occidente rivendicherà maggiore potere contrattuale.

L'impostazione metodologica di Marx è dunque così astratta che con essa si rischia di dimostrare il contrario di quanto s'era prefisso, e cioè che il plusvalore non è intenzionale ma casuale, in quanto solo in fabbrica il capitalista, ad un certo punto, si accorgerebbe di poterlo realizzare. “Fino a che gli affari vanno bene -dice Marx-, il capitalista è troppo preso a fare plusvalore per accorgersi di questa gratuita proprietà del lavoro”(p.249), cioè di “conservare valore aggiungendo valore”(ib.). In realtà il capitalista sa sin dall'inizio che lo sfruttamento di un lavoratore giuridicamente libero (nei cui confronti egli non abbia alcun obbligo, né legale né morale) è in grado di produrre plusvalore. Ciò che non sa è -almeno fino a Marx- come esattamente avvenga questo processo.

Allo stesso modo, il processo lavorativo tradizionale, allorché la forza-lavoro appare come merce sul mercato, è già stato ampiamente modificato. Proprio la trasformazione del lavoratore in operaio salariato, sta ad indicare l'avvenuto trionfo del capitalismo sull'autoconsumo. Un capitalista non acquisterebbe mai sul mercato una forza-lavoro se non sapesse in anticipo di poterle estorcere arbitrariamente ma legalmente un plusvalore. Se così non fosse non sarebbero mai nati né il capitalismo né l'industrializzazione, e il capitale si sarebbe fermato sulla soglia delle due forme tradizionali: commerciale e usuraia.

Ciò significa che se l'imprenditore ritiene che per produrre migliori o maggiori filati, occorre adoperare dei fusi d'oro invece che di ferro, col tempo questi saranno inevitabilmente sostituiti da quelli, e in tutte le fabbriche, nella ovvia consapevolezza di poter così aumentare il saggio del plusvalore. Il taylorismo rappresenta la dimostrazione più convincente che per il capitalista non esiste “il grado medio di abilità, di rifinitura e di celerità”, ovvero “l'usuale misura di sforzo” in cui viene impiegata la forza-lavoro di una determinata società (p.236). L'obiettivo del capitalista è proprio quello di modificare costantemente tale “grado d'intensità” (oggi diremmo di “flessibilità”, poiché l'automazione ha un ruolo prevalente) a vantaggio del plusvalore.

Paradossalmente, tuttavia, rivalutando il valore d'uso della forza-lavoro, Marx, senza volerlo, ha riaperto la strada alla valorizzazione dell'autoconsumo. Infatti, è solo passando attraverso il valore d'uso che si scopre la presenza (in sé necessaria) di una proprietà personale generalizzata. Nel capitalismo tale proprietà è monopolio di pochi; la maggioranza possiede soltanto la proprietà della propria forza-lavoro (fisica o intellettuale), di cui però non può disporre liberamente, non possedendo l'oggetto su cui e con cui applicarla. L'operaio ha una proprietà che è costretto a vendere quotidianamente alle condizioni del capitalista, finché non reagisce politicamente. Il plusvalore infatti non può essere eliminato né lottando per la riduzione dell'orario lavorativo, né esigendo un maggiore salario. La dimostrazione dell'oggettività del plusvalore è diventata, nel Capitale, la dimostrazione dell'impossibilità di superare tale oggettività restando sul terreno della rivendicazione contrattuale.

Capitale costante e variabile

Nel capitolo VI, intitolato “Capitale costante e capitale variabile”, Marx torna a parlare del valore d'uso della forza-lavoro, riprendendo la terminologia della I sezione, riferita al valore d'uso della merce. Essendo ora in gioco la forza-lavoro non sarà inutile cercare, anche da parte nostra, di specificare meglio il senso della nozione di “valore d'uso”.

Per Marx il valore d'uso d'una merce è dato dal tempo di lavoro occorso per produrla. Dev'essere però un tempo “socialmente necessario”, cioè riconosciuto come tale dalla collettività, secondo una media standard di dispendio di energie. Un lavoro è concreto, cioè utile, se prima è astratto, cioè “sociale lavoro in genere”(p.242). Marx dà per scontato che il valore d'uso di una merce sia sempre determinato dalla considerazione astratta e generale della collettività (che si esprime, per Marx, non nella comunità ma sul mercato) relativamente alla durata del tempo impiegato per produrla.

Se il tempo di lavoro per produrre una merce subisce una modificazione (nel caso p.es. di un cattivo raccolto), “si verifica -dice Marx- una reazione sulla vecchia merce [nel senso che il suo prezzo si modifica], che conta sempre e soltanto come unico esemplare della propria specie, e il suo valore viene misurato sempre in base al lavoro socialmente necessario, ossia necessario sempre, anche nelle attuali condizioni sociali”(p.253).

L'operaio “aggiunge una data grandezza di valore non in quanto il suo lavoro ha uno specifico contenuto utile, ma in quanto dura un certo tempo”(ib.). La qualità di un prodotto dipende dalla quantità di tempo (generalmente riconosciuta) necessaria per fabbricarlo. Naturalmente Marx non affermerebbe mai che un oggetto ha tanto più valore quanto più grande è stato il tempo per realizzarlo. Il tempo in questione è una grandezza media, il che presuppone che la collettività sappia, per esperienza, cioè anche prima che sia costruito un determinato bene di utilità sociale, quanto dispendio occorra a livello psico-fisico e intellettuale. Il valore d'uso d'una merce specifica presuppone il valore generale delle merci riconosciuto dalla collettività sul mercato.

Ebbene, questo modo di vedere le cose oggi appare limitato e come tale va superato. Spieghiamone la ragione con un esempio. Marx impiegò vent'anni a scrivere il Capitale. E' un'opera monumentale, certamente la più importante di tutte quelle che lui ha scritto. Contiene un'infinità di dati, di osservazioni, esprime una notevolissima cultura ed è strutturata in maniera molto organica. Inoltre rappresenta il superamento definitivo dell'economia politica classica.

Lenin invece scrisse Che fare? in pochi mesi, riflettendo non solo sulla società capitalistica ma anche sul movimento rivoluzionario. Sono due opere completamente diverse. Ma se uno oggi dovesse scegliere quale delle due lo potrebbe aiutare di più a superare i limiti del capitalismo, non potrebbe certo scegliere il Capitale. Relativamente all'esigenza di una transizione al socialismo, il Che fare? di Lenin ha ancora oggi un valore enorme, che non può essere paragonato con nessun altro libro della sinistra rivoluzionaria.

Dunque, ciò che dà valore al Che fare? è qualcosa che riguarda, molto da vicino, la coscienza o la cultura del soggetto che vuole uscire dal capitalismo. Se i due libri vengono messi a confronto, sotto tale aspetto, e lo possono essere, visto che entrambi gli autori desideravano la stessa transizione, il valore di Che fare? è decisamente superiore, e lo resterà fino a quando il socialismo non si sarà realizzato.

Qui naturalmente l'ideologo della borghesia potrà obiettare che il valore di Che fare? è relativo alla coscienza del lettore, cioè non è oggettivo. Da questo punto di vista però nessun libro lo sarebbe, neppure il Capitale né lo Zum Abschluss des Marxschen Systems con cui E. von Böhm-Bawerk ha dato il via alla critica del Capitale. E' vero che l'importanza di Che fare? può essere colta solo da una particolare coscienza soggettiva, ma questo non significa che il suo valore sia “soggettivo”. Certo, non si può stabilire a priori se una cosa ha un valore oggettivo o soggettivo, ma a posteriori lo si può dedurre. In tal senso è sufficiente costatare l'importanza che la storia (non solo dell'Europa ma del mondo intero) ha attribuito a quel libro, benché non tutto il mondo ne sia stato e ne sia ancora oggi consapevole.

L'esempio surriportato ci insegna due cose: 1) il mercato non è un criterio sufficiente per esprimere il valore delle cose; esso è un criterio per esprimere il valore di scambio delle merci, ma solo in termini di uso pratico, sociale, immediato. Il mercato, astrattamente parlando, dovrebbe limitarsi a riconoscere un valore che gli preesiste; esso al massimo può trasferire il valore da una merce all'altra, ma non può creare alcuna forma di valore. Il mercato che pretende di stabilire il valore d'uso delle merci a partire dal loro valore di scambio, compie un abuso (anche se questo fatto può riflettere la crisi di un sistema sociale), e alla fine impone un valore artificioso, irreale. Il valore di scambio deve dipendere dal valore d'uso, il quale si forma al di fuori del mercato.

Prima e dopo del mercato c'è la comunità, che può decidere il valore d'uso dei propri beni solo se è fondata sull'autoconsumo. Una comunità che producesse solo valori di scambio, anche se fosse fortissima sul piano finanziario, sarebbe debolissima su quello strutturale, in quanto completamente soggetta al trend del mercato mondiale. Molto più forte invece è quella comunità che indirizza verso il mercato solo l'eccedenza dei propri valori d'uso. Naturalmente una comunità del genere non potrebbe sussistere se non fosse in grado di proteggere la propria autonomia, specie nei confronti della produzione straniera per il mercato.

2) Il valore non può dipendere solo dal lavoro, astratto o concreto che sia, poiché il lavoro è una determinazione dell'attività umana che non esprime di per sé il valore delle cose, se non in termini strettamente economici, cioè funzionali alla sussistenza e alla produzione e riproduzione. Il valore delle cose è dato in primo luogo dalla “cultura” della comunità che autoproduce, cioè dal valore ontologico che la comunità vive in rapporto al significato della vita in genere. Le cose hanno un valore (anche pratico) in quanto ha valore il contesto in cui vengono collocate e usate. Non è sufficiente il tempo di lavoro socialmente necessario, occorre che le cose abbiano un'anima, in virtù della quale possano suscitare negli esseri umani il senso della libertà.

La categoria del valore si deve pertanto “spiritualizzare”. Questo perché il giorno in cui avremo risolto, nell'ambito del capitalismo, il problema dello sfruttamento sociale che evidenzia la produzione economica del plusvalore, resterà ancora un problema da affrontare: quello di creare nuovi valori culturali nella società socialista.

Da un lato quindi occorre rovesciare politicamente il primato del valore di scambio ripristinando il primato del valore d'uso; dall'altro bisogna estendere il concetto di “valore” a tutto ciò che non riguarda immediatamente la materialità della vita. Quando la merce non costituirà più l'oggetto del contendere umano, forse gli uomini conosceranno altre contraddizioni antagonistiche il cui oggetto sia necessariamente più spirituale, ma può anche darsi che i valori della libertà avranno raggiunto un tale livello di profondità da rendere facilmente smascherabile ogni antagonismo.

Parlando del processo di valorizzazione del capitale, Marx fa una precisa distinzione tra “capitale costante”(fattore oggettivo del processo lavorativo) e “capitale variabile”(fattore soggettivo). Il primo è quella “parte del capitale che si trasmuta in mezzi di produzione, ossia in materia prima, materie ausiliarie e mezzi di lavoro”; questa parte “non altera la propria grandezza di valore nel processo di produzione”(p.252). Nel senso che essa non aumenta il proprio valore, ma si limita a trasferirlo nei beni prodotti.

“Nel processo lavorativo -dice Marx- si verifica un trapasso di valore dal mezzo di produzione al prodotto solo perché il mezzo di produzione perde, oltre il suo indipendente valore d'uso, anche il suo valore di scambio”(p.244). Ciò in quanto la sua “originaria grandezza di valore [è determinata] dal tempo di lavoro occorrente alla sua stessa produzione”(p.248); “se non avesse avuto valore prima di entrare nel processo, non trasmetterebbe al prodotto alcun valore”(ib.).

Oggettivamente, la perdita di valore è dovuta al “logorio di tutti i mezzi di lavoro”(p.245). Ovviamente “un mezzo di produzione non trasmette mai al prodotto un valore maggiore di quanto ne perda...”(ib.). Calcolare la perdita è relativamente facile: “l'esperienza ci dice quanto dura in media un mezzo di lavoro...”(ib.).

Il capitale variabile invece è “la parte del capitale trasformata in forza lavorativa [che] muta il proprio valore nel processo di produzione. Essa riproduce il proprio equivalente e in più un'eccedenza, il plusvalore, che per suo conto può variare...”(p.252). Questo significa che “un mezzo di produzione entra tutto nel processo lavorativo, ma solo in parte nel processo di valorizzazione”(p.246), poiché questo secondo “processo” viene sostanzialmente gestito dalla forza-lavoro, la quale ha la “proprietà naturale [di] conservare valore aggiungendo valore”(p.249). Per Marx solo il riciclo degli scarti permette a questi di “entrare per intero nel processo di valorizzazione, pur facendo parte solo parzialmente del processo lavorativo”, a condizione però che tali scarti -egli aggiunge- non vengano usati per formare “nuovi mezzi di produzione, e perciò nuovi valori d'uso indipendenti”(p.247).

Dopo aver lasciato chiaramente intendere che un modo di produzione basato anzitutto sul valore di scambio è superiore a un modo di produzione basato anzitutto sul valore d'uso (dice infatti a p.244: “pur essendo importante per il valore esistere in qualche valore d'uso, gli è ugualmente indifferente in quale esso possa esistere...”), Marx, a p.250, con un giro di frasi piuttosto involuto, cerca di spiegare la differenza tra valore d'uso e di scambio nei mezzi produttivi capitalistici. In tali mezzi -egli afferma- non si consuma il valore di scambio (non essendo essi permutati con alcunché), ma solo quello d'uso (a causa del logorio). Perciò il valore di scambio non può essere riprodotto, propriamente parlando, nella merce (con un aumento di valore), ma solo conservato così com'è (dal mezzo produttivo alla merce), a differenza del valore d'uso, che invece si trasferisce dalla macchina al prodotto, diventando un nuovo valore d'uso, con capacità di scambio. Il vecchio valore di scambio dei mezzi produttivi, che si era conservato, è riapparso alla fine del processo produttivo, nel nuovo valore d'uso creato.

Così è dimostrato che l'incapacità di creare “valore”, da parte dei mezzi produttivi, dipende sia dal fatto ch'essi non possono trasferire più valore d'uso di quanto ne perdano, sia dal fatto ch'essi riproducono il loro valore di scambio solo “apparentemente” o “incidentalmente”, poiché in realtà lo trasmettono perdendolo. Dunque chi crea vero nuovo valore (d'uso e di scambio) è solo la forza-lavoro, che riproduce “realmente” il proprio valore, ed anzi produce anche un'eccedenza, il plusvalore, che il capitalista non paga.

Da notare che per Marx la “scambialità” di una merce può essere verificata solo a posteriori, cioè sul mercato. Egli non poteva immaginare che in un regime di monopolio essa è un “a priori” di quell'impresa che non produce semplicemente per vendere (rischiando cioè l'invenduto), ma produce quel che sa in anticipo di poter vendere. Naturalmente la convinzione di poter realizzare determinati profitti presuppone l'investimento d'ingenti capitali.

Ma il difetto principale nell'analisi di Marx è che egli tendeva a considerare in maniera separata la macchina dall'operaio, giacché per lui anzitutto esistevano i mezzi produttivi offerti dalla tradizione lavorativa, i quali successivamente venivano modificati dalle esigenze di profitto del capitalista, il quale costringeva l'operaio ad adeguarsi sic et simpliciter alle capacità della macchina.

Questo modo di vedere le cose, causato da uno scarso affronto culturale della transizione dal feudalesimo al capitalismo, è all'origine del linguaggio poco chiaro (“filosofico”) visto sopra. In realtà i mezzi produttivi capitalistici sono nati, sin dall'inizio, in netta antitesi al modo precedente di usarli, al punto che il plusvalore prodotto dall'operaio sarebbe stato impensabile, ai livelli raggiunti nel capitalismo, senza l'apporto straordinario del macchinismo, frutto, a sua volta, di una grande rivoluzione culturale. Successivamente, nel capitalismo monopolistico i mezzi produttivi vengono creati in toto dagli stessi operai che li usano, il cui apporto intellettuale è sempre più rilevante: tra operaio e macchina vi è una connessione molto stretta, che contrasta ancora di più con l'appropriazione privata del plusvalore.

La tesi di Marx secondo cui la facoltà di creare “valore addizionale” è tipica della forza-lavoro in ogni momento del processo produttivo, è giusta appunto perché nel capitalismo i mezzi produttivi permettono all'operaio questa facoltà. Negli altri sistemi produttivi il lavoratore trasforma valori già dati (dalla natura), non crea nuovi valori, proprio perché il valore di scambio non ha un primato su quello d'uso.

Marx dice che se anche l'operaio lavorasse il tempo necessario alla propria riproduzione, egli trasmetterebbe comunque alla merce “una nuova creazione di valore”(p.251), che i mezzi produttivi, da soli, non saprebbero fare. Con il suo “lavoro concreto”, l'operaio crea valore d'uso e con il suo “lavoro astratto” crea “nuovo valore”, che va ad aggiungersi a quello già esistente.

Tuttavia, se il processo finisse qui -aggiunge Marx, senza accorgersi che il vero limite è un altro-, il valore della merce rappresenterebbe “un semplice equivalente del valore della forza lavorativa”(ib.), in quanto l'operaio avrebbe unicamente rimpiazzato il denaro anticipato dal capitalista per acquistare la forza-lavoro. La nascita del plusvalore avviene quando il capitalista obbliga l'operaio a lavorare “oltre il punto in cui si riprodurrebbe”(ib.). Il plusvalore rappresenta la valorizzazione solo del capitale variabile.

Marx cioè non si è reso conto di un limite ancora più grave del modo di produzione capitalistico, che prescinde in un certo senso dalla realtà dello sfruttamento, e che riguarda inevitabilmente anche il sistema socialista, democratico o burocratico che sia. E' il limite della stessa produzione industriale e del primato del valore di scambio, che uccidono in maniera irreparabile la prassi dell'autoconsumo, il primato del valore d'uso, la tutela dell'ambiente, le tradizioni agricolo-artigianali, il senso dell'autogestione...

Marx distingue anche i “materiali da lavoro” dai “mezzi di lavoro”. I primi sono p.es. le materie prime, il carbone con cui si riscalda la macchina, l'olio con cui si lubrifica l'asse della ruota, una macchina in riparazione ecc. (sono esempi di Marx). Il capitale investito in questi materiali e che si consuma in un solo processo produttivo e che quindi entra tutto nel nuovo prodotto, è detto “circolante”. I “mezzi di lavoro” propriamente detti sono invece quelli “produttivi”: uno strumento, una macchina, l'edificio d'una fabbrica, un recipiente ecc. Il capitale qui impiegato, che trasmette nel prodotto solo la parte consumata (vedi le cosiddette “quote di ammortamento”), è detto “fisso”.

La differenza sta nel fatto che i mezzi di lavoro “sono utili nel processo lavorativo solo fino a che mantengono la loro forma originaria e tornano domani nel processo lavorativo nella medesima forma che avevano ieri”(pp.244-5). I “materiali da lavoro” invece servono solo a conservare intatti e utili i mezzi produttivi. Generalmente i materiali da lavoro scompaiono nel processo produttivo; Marx qui aggiunge, ancora ignaro dei problemi dell'inquinamento: “senza lasciar traccia”(p.244). Viceversa, “i cadaveri di macchine, di attrezzi, di opifici ecc. continuano ad esistere separati dai prodotti che avevano concorso a formare”(p.245).

Per Marx era inconcepibile l'idea che nel capitalismo vi fossero degli sprechi. A p.247 fa l'esempio delle grandi fabbriche di macchine di Manchester che riciclano “montagne di scarti di ferro”. Il riciclaggio degli “escrementi del processo lavorativo” è una caratteristica tipica del capitalista, che vuole risparmiare su tutto. Marx non poteva neppure sospettare che proprio quei “cadaveri di macchine” rappresentavano la testimonianza più eloquente delle leggi dell'entropia.

Ciò che Marx non avrebbe mai accettato è l'idea che in una moderna società industriale si possano produrre solo valori d'uso e non anche, nello stesso tempo, valori di scambio. L'unità dei due valori, per Marx, non solo è inevitabile in una società in cui i prodotti escono da aziende capitalistiche (e su questo nulla da obiettare), ma sarebbe anche giusta se i prodotti uscissero da aziende socializzate.

Per lui è del tutto “naturale” che un mezzo produttivo perda progressivamente il proprio valore d'uso per trasmetterlo, insieme a quello di scambio, ai prodotti del lavoro. “Se non avesse da perdere alcun valore...non trasmetterebbe alcun valore al prodotto. Esso servirebbe a formare valori d'uso, senza servire a formare valori di scambio: questo è il caso di ogni mezzo di produzione fornito dalla natura, senza che intervenga l'uomo, terra, vento, acqua, ferro nel filone, legname nella foresta vergine ecc.”(pp.245-6).

Cioè per Marx il rapporto artificiale dell'uomo con la natura è sostanzialmente da preferirsi a quello meramente naturale: il problema sta semmai nel potenziarlo secondo una regolamentazione sociale e razionale. Per lui quindi non è in discussione la formazione originaria del capitale costante, cioè la nascita dei moventi dell'industrializzazione e il sorgere della legittimità del suo primato sull'agricoltura e sull'artigianato, ma è in discussione la mera distribuzione del capitale variabile. Significativo è il fatto che dopo il cap. VI Marx parli del saggio del plusvalore e non dell'assurdità del sistema capitalista, che è costretto, per sopravvivere, a rivoluzionare continuamente i propri mezzi produttivi. L'analisi del capitalismo fatta nel Manifesto era, in tal senso, più indovinata.

In ogni caso questo modo di vedere le cose, alla luce delle moderne teorie sul degrado ambientale e sull'entropia, va ampiamente rivisto.

Che cos'è dunque il plusvalore? E' una parte di lavoro non pagata. Nel capitalismo, come in ogni altro sistema antagonistico, è sinonimo di “sfruttamento”. In nessun capitolo della III sezione Marx ha mai pensato di criticare la formazione in sé del plusvalore; egli si è semplicemente preoccupato di dimostrare che nel capitalismo la sua formazione avviene a spese del lavoratore. Infatti, il problema per Marx era unicamente quello di distribuire in modo equo i frutti del plusvalore. Questo, in sintesi, il significato della sezione in oggetto.

Fino ad oggi la critica borghese ha cercato di confutare l'oggettività del plusvalore scoperto da Marx, ma -bisogna ammetterlo- tutti i tentativi sono falliti. La stessa esigenza degli imprenditori di automatizzare sempre più la produzione nasce proprio dalla necessità di realizzare plusvalore estromettendo la forza-lavoro (che mal sopporta tale sfruttamento) dal processo produttivo.

Tuttavia, la resistenza della teoria del plusvalore alle critiche degli economisti non sta di per sé a significare ch'essa vada considerata come un dogma. Vi sono, in effetti, degli aspetti che vanno approfonditi e altri da sviluppare ex-novo, poiché Marx non li ha neppure presi in considerazione.

Il primo aspetto che bisogna assolutamente affrontare è di natura culturale, ed è inerente alla genesi storica del plusvalore capitalistico. Non dovrebbe essere difficile dimostrare che se non ci fosse stata la possibilità di creare un plusvalore diverso da quello che il feudatario realizzava con i suoi contadini-servi, non sarebbe mai nata alcuna rivoluzione industriale. Essa infatti rappresenta il tentativo (riuscito) di ricostituire, in forme diverse, quello sfruttamento cui il lavoro era fatto oggetto nel sistema feudale, e in cui -a ben guardare- si è sempre caratterizzato dalla fine del comunismo primitivo.

Ma perché ciò potesse avvenire con successo, occorreva che il lavoratore avesse l'illusione della libertà. Cioè da un lato occorreva che il capitalista fosse convinto al 100% che sfruttando la forza-lavoro avrebbe realizzato un profitto di molto superiore al capitale investito; dall'altro occorreva una forza-lavoro disposta a credere che, emancipandosi dallo sfruttamento feudale, non sarebbe ricaduta in uno peggiore.

Gli strumenti con cui realizzare il plusvalore non sono stati solo quelli socio-economici e tecnico-scientifici connessi all'uso della proprietà privata, del capitale, del macchinismo ecc., ma anche quelli di tipo culturale, strettamente legati all'ideologia e ai valori borghesi emergenti (che altro non erano se non una laicizzazione di precedenti valori religiosi). Se non ci fossero stati questi strumenti “invisibili”, nessun imprenditore avrebbe mai impiegato ingenti capitali col rischio di ottenere soltanto la loro conservazione originaria, senza ulteriore valorizzazione.

Certo, la rivoluzione industriale sarebbe potuta nascere anche in una società non antagonistica, ma ciò, se lo fosse stato, sarebbe avvenuto in maniera molto più lenta, senza stravolgere il precedente modo di produzione, e soprattutto senza lo sfruttamento della forza-lavoro (né le risorse naturali sarebbero state saccheggiate, né il colonialismo sarebbe mai nato ecc.). La novità della produzione di tipo “capitalistico” è consistita proprio in questo, che si è voluta costruire una società antitetica in tutto e per tutto a quella del passato, conservando però la prassi della sfruttamento del lavoro altrui.

La conseguenza è stata che in virtù del macchinismo si è potuto realizzare un plusvalore assolutamente imparagonabile con quello delle epoche precedenti. Questo fatto da Marx non viene mai problematizzato a fondo. Nel Capitale (ma già nel Manifesto era così) l'industrializzazione viene considerata come uno dei fattori oggettivi di progresso che ha permesso all'uomo di emanciparsi dalla tradizione agraria pre-capitalistica. Marx non ha colto il fatto che il plusvalore che l'operaio, attraverso la macchina, trasferisce alla merce e di conseguenza al profitto del capitalista, viene in un certo senso “pagato”, oltre che dallo sfruttamento della forza-lavoro, anche da una progressiva svalorizzazione della macchina, per la cui costruzione era stato speso un certo capitale (risorse materiali e naturali, energie psico-fisiche e intellettuali) che alla resa dei conti ha comportato un impoverimento delle condizioni generali dell'ambiente naturale e quindi un'instabilità e una precarietà sempre più crescente nelle condizioni generali di vita della stessa società umana.

Oggi, dopo aver costatato che nell'esperienza del “socialismo reale” il primato concesso all'industria comporta degli squilibri socio-ambientali anche in assenza della “logica” del capitale, siamo arrivati al punto da doverci chiedere: è veramente necessario produrre plusvalore? In teoria esso serve ad aumentare il livello del benessere; nel capitalismo -come noto- ciò è alquanto relativo, poiché il benessere è accompagnato dallo sfruttamento più o meno “selvaggio” delle risorse umane e naturali e quindi da un'appropriazione privata del plusvalore. Quando tale sfruttamento garantisce in Occidente, nei paesi a capitalismo avanzato, un livello medio o medio-alto di benessere, ciò significa che nel Terzo mondo esiste uno sfruttamento già molto intenso.

In una società senza antagonismi di classe, sarebbe ancora necessario il plusvalore? Ovverosia, cosa dobbiamo intendere con la parola “benessere”? La qualità della vita è forse una grandezza che dipende dalla quantità di beni che possediamo? Cos'è più importante: che l'uguaglianza sociale sia garantita o che la produzione aumenti di continuo? Le due cose infatti paiono escludersi a vicenda.

Probabilmente l'uomo, spinto in questo dalle stesse contraddizioni irrisolvibili del sistema capitalistico, è giunto ad una svolta epocale, in cui è costretto a prendere delle decisioni storiche, che dovranno necessariamente mutare lo scenario del suo futuro. Occorre dunque chiedersi: è preferibile limitarsi all'autoconsumo e alla semplice riproduzione dello standard di vita che garantisce a tutti libertà e proprietà, oppure dobbiamo puntare sullo scambio, sulla produttività in serie, sullo sfruttamento della natura, sulla ristrutturazione tecnologica, ovvero su tutto ciò per cui alcuni fruiscono di elevati livelli di benessere e altri (la maggioranza) non ne fruiscono affatto?

Naturalmente le alternative, nella pratica, non sono mai così nette come le formuliamo: sia perché non si può togliere all'uomo la speranza di poter umanizzare o democratizzare un sistema di vita basato sull'uso della tecnologia più avanzata; sia perché non si può togliere all'uomo il diritto di produrre più di quanto abbia effettivamente bisogno.

In questo caso però (che per noi è quello di maggiore interesse), se volessimo considerare positivamente la produzione di plusvalore, si dovrebbe affermare con certezza ch'essa, in una società democratica, non può essere né vietataimposta. Nel senso che la produzione del plusvalore va lasciata alla libera volontà dei cittadini, i quali però devono essere consapevoli che l'autoconsumo produce meno entropia e che il plusvalore va regolamentato con un'efficacia maggiore di quella che occorre per l'autoconsumo.

Ciò che alla comunità locale dovrebbe importare più di tutto è la riproduzione del valore. Il plusvalore non si giustifica col fatto che il capitale costante è soggetto a logorio. E' l'idea stessa d'investire del capitale per produrre solo plusvalore che va superata. Certo, se si dovesse guardare alla possibilità di produrre di più spendendo di meno, ogni innovazione tecnologica, utile allo scopo, dovrebbe essere ben accetta, anche se essa comportasse una contrazione del numero degli operai per ogni unità produttiva, o altri aspetti negativi.

Ma il problema oggi non è più semplicemente quello della maggiore efficienza (la cosiddetta “qualità totale”), del maggior risparmio e così via: sotto quest'unico aspetto sarà difficile contestare le ragioni dei capitalisti, eternamente angosciati, anche nella fase monopolistica, dal problema di battere la concorrenza. In realtà oggi il problema è diventato quello di mettere in discussione la necessità di produrre beni di consumo attraverso, anzitutto, i mezzi industriali, che da almeno 500 anni vengono considerati prioritari rispetto a quelli agricolo-artigianali, al punto che la scomparsa progressiva di quest'ultimi viene ritenuta come un fenomeno non solo inevitabile ma anche legittimo e segno di vero progresso.

Il macchinismo, che avrebbe dovuto garantire ordine e razionalità, ha prodotto invece disordine e arbitrio. Si sono persi i cicli della vita naturale, contadina; usiamo prevalentemente risorse non rinnovabili; i costi economici, per produrre plusvalore, sono sempre maggiori; ogni nuova applicazione tecnologica, fin dal suo inizio, presenta degli effetti secondari imprevedibili, che sono più disastrosi dell'assenza di quella nuova tecnologia, e ai quali, per giunta, si cerca di porre rimedio con un'altra tecnologia, ancora più sofisticata, e tutto ciò in omaggio al fatto che la tecnica non è più un semplice “strumento di lavoro”, ma è addirittura diventata un “modello di vita”. Il lavoro viene sempre più vissuto come una condanna anche da coloro che fruiscono di una vita relativamente agiata.

Ecco perché l'idea che oggi deve affermarsi è quella di una produzione del plusvalore solo in casi limitati, di stretta necessità. L'eccedenza di beni di consumo deve diventare la risultante naturale, spontanea, del processo produttivo, a meno che essa non nasca da un'esigenza particolare della collettività, soddisfatta la quale tutto deve tornare come prima.

Il difetto del capitalismo, in sostanza, non sta tanto nel voler produrre una merce il cui valore sia in eccesso rispetto al valore consumato nel processo produttivo, quanto piuttosto sta nel voler fare solo questo e ad ogni costo: “la produzione di plusvalore -dice Marx- è il fine specifico della produzione capitalistica”(p.278). Ciò è potuto accadere perché, storicamente parlando, il problema di creare plusvalore si è imposto come esigenza di una persona singola, ostile all'interesse comunitario di “conservare” il valore: ieri questi “singoli” erano gli schiavisti e i feudatari, oggi sono i capitalisti (e nel socialismo amministrato i burocrati dello Stato). In virtù dell'attività imprenditoriale del capitalista, noi oggi diamo per scontato che la produzione di plusvalore sia indispensabile, ma la comunità dovrebbe opporsi a questa cultura rivendicando non solo, come chiede il marxismo, la socializzazione del plusvalore, ma anche quella della sua riduzione al minimo indispensabile.

Torniamo ora alla domanda iniziale: che cos'è il plusvalore? Se la produzione fosse completamente automatizzata ci sarebbe ugualmente il plusvalore?

Marx non si pone questa domanda non solo perché ai suoi tempi l'ipotesi era ancora inverosimile, ma anche perché l'avrebbe considerata mal posta. In effetti, una produzione automatizzata non rappresenta mai un'autoproduzione: le macchine, solo per il fatto di esistere, dimostrano la loro dipendenza dagli operai, dai tecnici, dagli ingegneri o dai progettisti; inoltre esse vanno periodicamente controllate, revisionate, perfezionate, sostituite... Una macchina non è in grado di migliorare, oltre un certo limite, la qualità della propria produzione. Quindi il plusvalore è inevitabile.

Naturalmente un'impresa del genere -che ai tempi di Marx non esisteva- realizza plusvalore più con gli operai intellettuali che non con quelli manuali (almeno nell'area del capitalismo avanzato), e quindi più nel momento della progettazione e del controllo della macchina, che non nel momento della trasformazione della materia prima, ove la manovalanza è ridotta al minimo essenziale.

Tuttavia, in questo caso il plusvalore può essere realizzato a una condizione ben precisa: che le altre imprese non abbiano acquisito il medesimo livello di automazione, ovvero ch'esse impieghino manodopera salariata, senza la quale sarebbe impossibile acquistare le merci dell'impresa automatizzata. Non a caso quest'ultima, per evitare la sovrapproduzione, per realizzare alti profitti e per non costringere le altre imprese -che rischiano d'essere rovinate dalla concorrenza dei suoi prezzi- ad automatizzarsi nella stessa maniera, deve necessariamente puntare sull'export. Se tutte le imprese di una nazione sono automatizzate e l'export non garantisce uno sbocco sicuro, la crisi è inevitabile, poiché la macchina, di per sé, è nulla senza il lavoro vivo dell'operaio.

Un'impresa automatizzata realizza il massimo risparmio sul costo del lavoro (a parte quello intellettuale) con il massimo di efficienza (per quanto la produzione in serie non garantisca di per sé una maggiore flessibilità), ma realizza anche, indirettamente, il massimo di sfruttamento possibile della manodopera salariata delle altre imprese, divenendo così altamente parassitaria nell'ambito del capitalismo. La sostituzione dell'operaio con la macchina avrebbe senso se l'operaio fosse riciclato in un'altra mansione, meno faticosa, meno rischiosa, più gratificante ecc. Ma questo nel capitalismo sarebbe possibile (peraltro relativamente) solo se nel Terzo mondo lo sfruttamento della manodopera salariata avesse raggiunto livelli particolarmente elevati.

Se invece la proprietà della fabbrica fosse statale, si produrrebbe ugualmente pluvalore? Il plusvalore non è solo relativo allo sfruttamento capitalistico, esso è anche oggettivo, a causa della particolare modalità con cui s'investe il capitale costante, finalizzato alla valorizzazione della tecnologia e all'acquisizione di un profitto che incrementi il capitale investito. Questa modalità può avvenire anche in una società socialista.

Se non ci fosse lo sfruttamento, ci sarebbe ugualmente il plusvalore, ma esso, nel socialismo, non sarebbe una parte di lavoro non pagata. In questo senso il cosiddetto “socialismo reale” è fallito anche perché ha preteso di gestire in modo democratico il plusvalore attraverso gli organi statali. Proprio la presenza dello Stato, che deteneva un ruolo egemonico sulla società civile, impediva di garantire un'equa ridistribuzione del plusvalore a livello nazionale.

Se invece la proprietà fosse sociale non ci sarebbe alcun plusvalore “forzato”, poiché l'operaio sarebbe pagato per quello che effettivamente produce. Il plusvalore potrebbe esserci solo in forma “liberamente accettata”. Ovviamente l'operaio dovrebbe contribuire con le proprie tasse a che la comunità locale disponga di tutte le strutture e i servizi necessari.

Proprietari della fabbrica sono coloro che vi lavorano: essi sono i responsabili ultimi della sua gestione, benché il collettivo dell'impresa, in una società veramente democratica, non possa decidere per suo conto né il tipo delle merci, né la loro quantità e, anche per quanto riguarda la qualità, esso dovrebbe tener conto degli interessi e delle esigenze di tutti i consumatori.

In una società socialista occorrerebbe che tutti avessero consapevolezza che la macchina non può trasmettere al prodotto un valore superiore al proprio, per cui non è indispensabile produrre macchine sempre più sofisticate, costose, capaci di “grandi prestazioni”: quanto più s'impiegano macchine di questo tipo, tanto più velocemente esse cedono il proprio valore d'uso al prodotto e quindi tanto prima diventano “cadaveri di macchine”. Il capitalismo, che induce, a causa della concorrenza, a perfezionare sempre più la propria tecnologia, finisce col cadere in un circolo vizioso, poiché per integrare i costi coi profitti è costretto ad acuire al massimo le proprie contraddizioni.

Ciò che conta, in definitiva, è solo il “capitale umano”, cioè il lavoro vivo dell'operaio, che, se vissuto in un contesto sociale significativo (ontologico), sa conservare l'uso delle macchine in modo conforme alle necessità dell'uomo.

Il capitolo dedicato al saggio del plusvalore è la parte più tecnica di tutta la III sezione, e quindi è anche la meno interessante. Tuttavia, essa era indispensabile nell'impostazione metodologica di Marx, il quale, nel Capitale, ha voluto dimostrare l'oggettività dello sfruttamento partendo non dalle conseguenze sociali del lavoro salariato (come ha fatto, p.es., nel Manifesto), ma dalle contraddizioni matematiche intrinseche allo stesso processo produttivo (di lavoro e di valorizzazione del capitale).

Marx in sostanza ha svolto questo ragionamento: 1) nel capitalismo -come in altre società basate sullo sfruttamento del lavoro- si produce plusvalore; 2) fine ultimo del capitalismo -a differenza delle altre società antagonistiche- è la mera produzione di plusvalore: “la misura del grado della ricchezza -dice Marx- non è dato dalla grandezza assoluta del prodotto, bensì dalla grandezza relativa del plusprodotto”(p.278), che rappresenta il plusvalore. Solo nel capitalismo il plusprodotto -che pur si trova in ogni tipo di società- diventa portatore materiale di plusvalore. Ciò è reso possibile dal fatto che qui diventa merce anche la forza-lavoro dell'individuo; 3) il plusvalore è dunque fonte di sfruttamento perché non pagato a chi lo produce; 4) superare il capitalismo vuol dire socializzare il plusvalore.

Marx non mette mai in discussione il plusvalore come tale, ma solo la sua destinazione privata. Egli non ha mai espresso alcun interesse circa la possibilità di creare un socialismo democratico che si limitasse alla pura e semplice riproduzione del valore.

La parte più difficile da accettare, nel modo di quantificare il saggio del plusvalore, è l'attribuzione di una valore = 0 al capitale costante (“c”). Come noto, per “capitale costante” Marx intende “il valore dei mezzi di produzione consumati” nella produzione (p.256), cioè intende quella quota-parte del capitale complessivo investito che, logorandosi, si trasferisce nella merce.

Ora, Marx sostiene che se “c” fosse = 0 (e ciò è possibile se il capitalista utilizza solo materiali esistenti in natura, come ad es. le risorse rinnovabili, e forza-lavoro), il plusvalore (“p”) ottenuto “resterebbe della medesima grandezza che se “c” stesse a indicare la somma massima di valore”(p.257). Questo perché il plusvalore non è prodotto dalla macchina ma dalla forza-lavoro. (Da notare che a Marx non interessa minimamente l'ipotesi di un c = 0, senza formazione di plusvalore).

Se invece il plusvalore fosse = 0, cioè se la forza-lavoro avesse prodotto un valore equivalente al suo prezzo, il capitale anticipato non si sarebbe valorizzato (e -si può aggiungere- il capitalismo non sarebbe mai nato).

Ciò che a Marx interessa mostrare è che, per comprendere l'entità esatta del plusvalore, l'economista deve considerare solo le trasformazioni di valore che avvengono in una porzione del capitale variabile (trasformato in forza-lavoro), e deve fare astrazione dal valore del capitale costante. Il plusvalore infatti non si forma col trasferimento di valore del capitale costante al prodotto, neppure aggiungendo tale valore a quello che crea la forza-lavoro.

Ecco perché è necessario che “c” sia posto = 0, altrimenti si avrà che, a causa dell'aumento del capitale variabile (“v”), alla fine sarà aumentato anche il capitale complessivo anticipato. Il che -secondo Marx- è un modo sbagliato di vedere le cose, essendo il plusvalore un'eccedenza estorta con l'inganno del contratto, per il quale non si paga il “lavoro” bensì la sola “forza-lavoro”. Se nel calcolo del plusvalore si conteggia anche il capitale costante, sarà poi impossibile individuare il momento esatto dello sfruttamento; si tenderà infatti a pensare che il plusvalore sia ottenuto in proporzione al capitale anticipato o ch'esso serva a coprire le spese.

Marx non nega l'importanza del capitale costante; qui si limita semplicemente a dire -rimandando al III libro un'esposizione più dettagliata- che se delle “proporzioni” esistono, queste non sono tra capitale costante e plusvalore, ma da un lato tra capitale costante e capitale variabile: “per far che funzioni il capitale variabile, è necessario che venga anticipato capitale costante in corrispondenti proporzioni...”(p.258); dall'altro, tra capitale variabile e plusvalore, nel senso che la grandezza proporzionale del plusvalore, cioè “la proporzione in cui il capitale variabile si è valorizzato, è chiaramente determinata dal rapporto del plusvalore col capitale variabile”(pp.259-60) -il che appunto costituisce il “saggio del plusvalore”.

L'altro rapporto che indica la proporzione tra “p” e “v” è quello tra pluslavoro (col quale l'operaio produce plusvalore nel tempo di valoro superfluo alla riproduzione del valore della sua forza-lavoro) e lavoro necessario (alla riproduzione del suo valore).

Marx insomma ha voluto dimostrare che il saggio del plusvalore è molto più grande di quello che il capitalista vuol fare apparire mettendo nel conto il valore del capitale costante. Nelle equazioni di Marx “il lavoratore impiega più della metà della sua giornata lavorativa per produrre un plusvalore che diverse persone si ripartiscono tra loro con vari pretesti”(pp.265-6). Tali persone sono tutte quelle non direttamente coinvolte nel processo di valorizzazione del capitale (politici, burocrati, militari, insegnanti ecc., inclusi ovviamente gli stessi capitalisti!).

Quindi il plusvalore rappresenta la valorizzazione del solo capitale variabile. Esso naturalmente aumenta coll'aumentare del grado di sfruttamento. Negli odierni paesi capitalisti avanzati il saggio del plusvalore è del 300% e oltre. Il tempo necessario per riprodurre il costo della forza-lavoro si è ridotto, in talune imprese automatizzate, a meno di un'ora.

E' una contraddizione in termini quella di sostenere che il valore di una merce “è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla”(p.279). Questa legge non è contraddittoria semplicemente perché sul mercato capitalistico esistono merci che hanno un valore di scambio del tutto sproporzionato al loro effettivo valore d'uso, o perché esistono merci costosissime pur essendo prodotte in tempi assai limitati (fenomeno, questo, che con l'automazione si va sempre più accentuando): la legge del valore non diventa inattendibile solo perché sul mercato si verificano delle assurdità. Essa, nelle intenzioni di Marx, voleva più che altro indicare una linea di tendenza generale, un “dover essere” astratto.

Tuttavia -è ciò è davvero un paradosso- proprio a causa dei particolari e acuti antagonismi che si verificano in ambito capitalistico, quella legge pare essere formulata apposta per essere applicata in una società che certo capitalistica non può essere. Gli economisti borghesi si sono serviti di questa incongruenza per sostenere che va superato non il capitalismo ma la stessa legge del valore e quindi l'idea di una transizione al socialismo. In tal modo essi non sono riusciti a cogliere i limiti veri di quella legge, che vanno aldilà della semplice sfera economica.

In effetti, dire che il “valore” di una merce è determinato dal “tempo” occorso per produrla, è come dire, in pratica, che il “tempo” rappresenta un “valore”. Ora, se c'è una cosa che di per sé non ha valore, questa è proprio il tempo, che può scorrere con una durata più o meno lunga a seconda di chi lo vive. Naturalmente Marx risponderebbe a questa obiezione che il tempo cui occorre riferirsi è quello “socialmente necessario”, non quello “soggettivamente arbitrario”.

Ma cosa significa “socialmente necessario”? Se il tempo cui ci si riferisce, per determinare il valore di una cosa, è un tempo collettivo, socialmente condiviso, allora esso non ha un valore proprio, ma dipendente dalla collettività che lo vive, e quindi dalla cultura di questa collettività e dalla coscienza con cui essa vive la propria cultura. Il tempo quindi ha un valore solo nella misura in cui qualcuno glielo conferisce. E questo qualcuno deve vivere in un determinato “spazio” (categoria, questa, che nel Capitale viene riempita di pochi contenuti, nel senso che la storicità dell'opera appare più “verticale” e meno “orizzontale”).

Stando le cose in questi termini, il valore di un oggetto (di uso comune) non può essere determinato semplicemente dal “suo” tempo, se non in senso “tecnico”, “economicistico”, ma deve essere determinato anche dal contesto semantico in cui esso è collocato, e quindi in ultima istanza dalla cultura significativa di una determinata comunità, la quale, a sua volta, dà senso alla dimensione del tempo (e dello spazio) in cui vive.

Ma se è l'uomo, come essere sociale, a dare un valore alle cose, il valore di queste cose può anche oltrepassare i limiti della dimensione specifica del tempo (e dello spazio), così come il valore de Il Capitale può crescere o diminuire a seconda della coscienza di quanti, nel corso dei secoli, lo leggono. Marx non riusciva a comprendere perché al suo tempo il Capitale avesse più fortuna fra gli intellettuali progressisti della Russia zarista che non tra le fila del proletariato industriale dell'Europa occidentale. La ragione tuttavia era semplice, anche se, ovviamente, non afferrabile con gli strumenti dell'economia: è la coscienza rivoluzionaria che dà il valore giusto alle cose di valore, che crea cose il cui valore è destinato a rimanere nel tempo, a disposizione di una qualunque altra coscienza in grado di riconoscerlo. Cos'è in fondo la “lotta di classe” se non la testimonianza che di fronte a cose analoghe si possono dare valutazioni opposte?

Ora, se tutto ciò è vero, lo è anche in senso contrario, e cioè in riferimento al fatto che nel capitalismo la legge del valore è continuamente contraddetta dalla “legge dei prezzi”, che è quella cui i capitalisti sono più interessati. In tutta la III sezione Marx non ha mai preso in considerazione l'ipotesi del prezzo di una merce che per la sua scarsità o novità sul mercato, sale alle stelle, permettendo al capitale costante di realizzare un valore di scambio della merce di molto superiore al suo valore d'uso, e quindi di acquistare, indirettamente, un valore addizionale particolare, relativo alla favorevole congiuntura o circostanza. Nella nota a p. 266 Marx afferma di aver supposto “che i prezzi siano uguali ai valori. Nel terzo libro -egli aggiunge- vedremo come tale uguaglianza non si verifica in maniera così semplice neanche per i prezzi medi”.

La differenza tra valore e prezzo obbligherà Marx a rivedere la sua teoria sul plusvalore e a ricomprenderla in quella più generale di profitto, all'interno della quale si opera una rivalutazione del ruolo del capitale costante. In questa sezione Marx rifiuta a priori l'idea di considerare il plusvalore come una necessità per ammortizzare i costi iniziali dovuti all'acquisto non solo di forza-lavoro, ma anche, e soprattutto, di materie prime, macchinari ecc. Di plusvalore “netto”, in effetti, si può parlare solo dopo aver “coperto” le spese iniziali.

Naturalmente il capitalista sosterrà sempre che i costi non possono mai essere ammortizzati definitivamente, in quanto il macchinario, essendo soggetto a logorio, necessita di essere periodicamente sostituito o ristrutturato, senza parlare delle necessità di riconversione industriale cui ogni capitalista si sente obbligato a causa della concorrenza altrui.

Marx tuttavia non ha cercato, in questa sezione, di uscire da questo vicolo cieco portando il ragionamento sulle modalità con cui l'imprenditore ha potuto accumulare così ingenti capitale da poterli investire in una grande impresa capitalistica. Egli non è interessato a questo discorso per due ragioni: 1) l'accumulazione originaria non deve mettere in discussione la giustezza della transizione dal feudalesimo al capitalismo; 2) il limite di fondo del capitalismo consiste semplicemente nella gestione antisociale del plusvalore.

Di fatto però la formazione di plusvalore non dipende solo dal capitale variabile ma anche da quello costante, poiché, se è vero che lo sfruttamento sta nel plusvalore, è anche vero che il plusvalore capitalistico è di tipo particolare, in quanto può essere accumulato all'infinito. E questa particolarità non è offerta al capitalista unicamente dal valore della forza-lavoro, ma anche dal macchinismo, nel senso che se il capitale costante non altera la propria grandezza di valore, rende però possibile un plusvalore inedito, senza precedenti storici. E' proprio il capitalismo che costringe il tradizionale capitale costante a trasformarsi in una diversa grandezza di valore, che comporta un mutamento qualitativo di tutta l'attività produttiva.

L'originaria grandezza di valore del capitale costante, nell'ambito del capitalismo, non sta più nel “tempo di lavoro necessario” alla sua produzione, poiché nel capitalismo il concetto di “tempo necessario” non ha più il riferimento oggettivo della socializzazione produttiva. L'unico riferimento (fatto passare per “oggettivo”) è quello del mercato, ove dominano gli interessi dei proprietari privati, i quali vogliono realizzare un profitto il più possibile sproporzionato rispetto agli iniziali costi di produzione sostenuti.

Ciò significa che nel costruire il capitale costante il tempo è “necessario” solo nel modo in cui l'intende la classe capitalistica nel suo complesso. La macchina, in tal senso, non ha solo un tempo limitato dal suo progressivo logorio, ma ha pure un tempo “nascosto”, che scorre assai più velocemente e che quindi è più corto di quello “ufficiale”: è il tempo che le impone una macchina concorrente. Quindi è un tempo “psicologico”. L'introduzione del macchinismo ha rivoluzionato la dimensione del tempo, che, nel capitalismo, ha assunto tratti patologici, dovuti appunto allo stress della competizione.

Il capitalista della macchina “A” sa, in anticipo, cioè prima ancora di farla funzionare, di avere meno tempo a disposizione di quello che gli concederà la sua stessa macchina, poiché sa che da un'altra parte esiste un capitalista che, con la sua macchina “B”, farà di tutto per rovinarlo o, in attesa di averla, per carpirgli i suoi segreti industriali. Ecco perché il capitalista della macchina “A” non aspetterà ch'essa si logori, prima di ristrutturla, ma farà in modo di farla lavorare al massimo, nel periodo iniziale (senza preoccuparsi della sovrapproduzione), mentre nei periodi successivi cercherà, appena saprà di poterne trarre un certo utile, di sostituirla o di modificarla prima ch'essa ne abbia “fisicamente” bisogno.

Il bisogno di ristrutturare il capitale costante non dipende tanto dal logorio di quest'ultimo, quanto piuttosto dalla necessità che il capitalista ha d'incrementare continuamente il plusvalore. Ad un certo punto, infatti, la necessità di accumulare plusvalore non dipende più dall'esigenza d'imporsi sul modo di produzione precedente, sui consumi tradizionali della gente ecc.: orami questi obiettivi sono stati sufficientemente acquisiti, e il regime monopolistico-statale garantisce una relativa sicurezza. L'esigenza invece è quella di difendersi da altri monopoli che, ostili al protezionismo e favorevoli al libero mercato, minacciano di rovinarlo.

Ecco, in tal senso, si può affermare che nel momento in cui il capitalista introduce una nuova macchina, il valore di quest'ultima è maggiore rispetto a quello che si ottiene dalla divisione del tempo necessario al suo logorio, così come è diverso il prezzo dal valore della merce. Un'innovazione tecnologica permette all'inizio un plusvalore maggiore di quello che si ottiene con la stessa macchina, in buone condizioni, quando la concorrenza si è dotata di una macchina equivalente. Di qui la crescente importanza, soprattutto nell'ambito intellettualizzato dell'automazione, dello spionaggio industriale. Questo significa che il capitale costante non può né essere separato da quello variabile né posto = 0.

D'altra parte ha un che di singolare il fatto che da un lato Marx consideri il capitale costante = 0, quando tale condizione si verifica solo nelle società agrarie basate sull'autoconsumo; e dall'altro pretenda di valutare l'entità del plusvalore, quando tale grandezza presuppone il superamento di quel tipo di società. Marx ha bisogno di credere nel concetto di “tempo di lavoro socialmente necessario” per determinare l'entità esatta (matematica) del capitale costante e soprattutto del plusvalore, e non s'accorge che proprio quel tipo di capitale e di plusvalore, nell'ambito del capitalismo, vanificano l'applicazione del suddetto concetto.

Inoltre, non avendo analizzato in questa sede l'importanza del capitale costante nella formazione del plusvalore, Marx offre l'immagine di un operaio che sembra avere in sé una forza “magica” con cui creare continuamente valore aggiunto.

In realtà è solo nel capitalismo che il valore aggiunto appare nello stesso processo lavorativo; in tutte le altre formazioni esso o non appariva, oppure appariva in un'altra fase del processo lavorativo: quella “forzata” della coercizione extra-economica.

Il lavoratore ha il compito di “riprodurre il valore”, o meglio, quello di “trasformarlo riproducendolo”, non ha il compito di “aumentarlo”, né, tanto meno, quello di “crearlo”. Il valore non può essere creato ex-novo, né può essere aumentato più di quanto non possa essere riprodotto, come d'altra parte è impossibile riprodurre un essere umano che abbia caratteristiche sovrumane.

Se nel capitalismo si può costatare un aumento del valore, ciò avviene a scapito della possibilità stessa di riprodurlo usando la medesima energia: questa infatti, nel capitalismo, dev'essere sempre più “potente” perché si possa riprodurre il valore.

Per non parlare delle ricadute negative di questo processo sulla sfera etica. Col macchinismo ci si è illusi che all'aumento del valore economico potesse corrispondere l'aumento del valore etico (intendendo col termine “etica” tutta la sfera sovrastrutturale). Invece il valore dell'etica ha subìto un deprezzamento inversamente proporzionale al valore dell'economia.

L'esigenza del plusvalore -come metodo sistematico di creare valore- può nascere solo in una società antagonistica, dove gli interessi di pochi singoli sono in contrasto con quelli della grande maggioranza. Il singolo, nei confronti della collettività, non potrebbe sussistere limitandosi a riprodurre il valore: egli ha necessariamente bisogno di un'eccedenza che lo tuteli, per ottenere la quale è disposto ad ogni cosa.

La particolarità del plusvalore capitalistico, in tal senso, è offerta, proprio dal fatto ch'essa è sorta dopo la formazione sociale feudale. Il capitalista non poteva tornare allo schiavismo tout-court: là dove l'ha fatto (in Africa e in Americalatina), o le culture locali erano troppo deboli per poterlo impedire, oppure non esisteva ancora quella cristiana, la quale, nella veste cattolico-protestante, tollera sul piano pratico e condanna su quello teorico.

Il presupposto di Marx secondo cui “la forza lavorativa è acquistata e venduta al suo valore”(p.279), nel senso che il suo valore “è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla”(ib.), è un presupposto che avrebbe senso, al limite, in una società dove il valore avesse un senso: non può certo averne in una società dove ciò che ha veramente valore è solo il prezzo di una merce.

Nella società capitalistica tutte le merci sono “equivalenti”, cioè senza valore specifico: ciò che le differenzia, in ultima istanza, è solo il prezzo, poiché in virtù di questo ogni merce può essere acquistata. Non esiste alcuna merce che “non abbia prezzo”, il cui valore cioè sia “senza prezzo”, assolutamente incommensurabile. Nel capitalismo ciò che ha un valore personale (affettivo, sentimentale ecc.), in realtà non ha un vero valore, poiché non viene riconosciuto socialmente. Ciò che ha vero valore è soltanto ciò che sul mercato ha un prezzo, e, paradossalmente, è proprio questo modo di “valutare” che toglie alle cose il loro valore specifico, quello che può essere determinato non dal mercato ma dal contesto sociale che usa quelle cose secondo un preciso significato.

Quindi il presupposto che nel capitalismo la forza-lavoro venga acquistata al suo valore, non si verifica mai, meno che mai spontaneamente. E' solo attraverso la lotta di classe che la forza-lavoro può sperare di essere acquistata al proprio valore, per quanto una lotta di classe che si limitasse a tale rivendicazione, non uscirebbe -direbbe Lenin- dai limiti del “tradunionismo”.

Infatti, il vero valore della forza-lavoro non può essere deciso nella contrattazione, poiché la riduzione dell'uomo a “lavoratore” risente già dei limiti della cultura borghese. E' il capitalismo che costringe l'uomo a far valere il prezzo della propria forza-lavoro, al fine di non essere sfruttato economicamente. Ma ognuno si rende conto da sé che, superati i limiti del capitalismo, non avrà più senso misurare il “valore della forza-lavoro” in termini matematici, poiché questo valore non è misurabile, come non può esserlo quello del coraggio, dell'onore, dei principi ecc.

Il valore dell'essere umano non può essere quantificato, se non facendo astrazione dall'individuo specifico: il che è un controsenso. Il valore dell'uomo può solo essere costatato, osservando con quali capacità ed energie l'essere umano in senso lato (uomo o donna che sia, “produttivo” o “improduttivo”, maggiorenne o minorenne ecc.) riesce a realizzare una società democratica, fondata sulla libertà e sulla giustizia.

Una società la cui forza-lavoro ha un altissimo valore, non ci dice nulla sul “valore” dei suoi cittadini. Nella futura società socialista nessun indice economico potrà di per sé indicare il potenziale “etico” di una popolazione. Nessuno è in grado d'individuare quale tipo di libertà vive una nazione, limitandosi ad esaminare i suoi indici produttivi, di consumo ecc.

Peraltro, se si parte dal presupposto che la forza-lavoro venga acquistata al suo valore, si finisce col considerare il plusvalore come una conseguenza accessoria della contrattazione, che con una buona rivendicazione salariale potrebbe essere risolta. Questo anche se esplicitamente si sostiene che fine del capitalismo è accumulare plusvalore.

In realtà, occorre evitare l'illusione di credere che, eliminato il problema del plusvalore, il capitalismo sia, nel complesso, un sistema accettabile. E soprattutto non si deve alimentare questa illusione facendo credere che sul mercato la forza-lavoro possa essere acquistata al suo giusto prezzo. Il capitalista non parte mai da questo presupposto. Sin dall'inizio, il tempo che occorre alla forza-lavoro per riprodursi appare al capitalista sufficiente anche quando non lo è affatto.

Nel cap. VIII, dedicato alla giornata lavorativa, Marx prende in esame la possibilità da parte del capitalista di estorcere all'operaio un plusvalore assoluto.

Come già visto, Marx è partito dal presupposto che la forza-lavoro viene acquistata e venduta al suo valore. Ciò significa che una parte della giornata lavorativa è caratterizzata dal tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro.

Il plusvalore si realizza nell'altra parte della giornata, quella in cui la forza-lavoro crea un valore superiore al proprio e di cui non può beneficiare. Marx fa l'esempio che se a un operaio occorrono 6 ore per riprodurre il proprio valore, le altre 6 ore costituiscono plusvalore al 100%. Per ottenere un plusvalore superiore a questa percentuale, al capitalista basta prolungare la giornata di lavoro.

Il cap. VIII ha appunto lo scopo di dimostrare che la formazione del plusvalore assoluto può avvenire solo entro un limite massimo di tollerabilità, fisica e morale, relativo all'esigenza di riproduzione della forza-lavoro, altrimenti il capitalismo finisce coll'autodistruggersi, sebbene di questo non si preoccupino affatto i singoli capitalisti, che al massimo sono interessati alla possibilità di sostituire la forza-lavoro logorata con altra in esubero.

Se l'operaio si oppone al prolungamento della giornata di lavoro, il capitalista potrà giocare un'altra carta per estorcere plusvalore superiore al 100%: quella dell'intensificazione del lavoro, con la quale cercherà di costringere l'operaio a riprodurre il proprio valore non in 6 ore, ma ad es. in 4 o in 2. Questo plusvalore è detto relativo, ma col termine di “intensificazione del lavoro” Marx non intende qui che la riduzione del tempo di lavoro necessario e non anche l'uso della rivoluzione tecnico-scientifica applicata alla produzione (vedi ad es. la catena di montaggio). Di questo egli parlerà nel cap. X.

“Il capitale -dice Marx- non ha inventato il pluslavoro. In ogni luogo in cui una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al proprio mantenimento un tempo di lavoro eccedente per la produzione dei mezzi di sussistenza del possessore dei mezzi di produzione”(p.285). Infatti, l'assurdità dei sistemi antagonistici è che proprio chi detiene il monopolio dei mezzi produttivi è il più “improduttivo” e deve farsi mantenere dal lavoro forzato di chi è nullatenente.

“Ma è evidente -prosegue Marx, e questo è veramente importante- che se in una formazione sociale prevale il valore d'uso del prodotto più che il suo valore di scambio, il pluslavoro è allora limitato ad una quantità più o meno grande di bisogni, ma dal carattere stesso della produzione non sorge alcun insaziabile bisogno di pluslavoro”(ib.), cioè lo sfruttamento trova un limite nella capacità di consumo dello stesso sfruttatore.

E' appunto questo che, in ultima istanza, fa la differenza tra una formazione sociale antagonistica pre-capitalistica e una capitalistica. Che nella prima prevalga il valore d'uso non significa, ovviamente, che non sia conosciuto e apprezzato il valore di scambio, ma è solo nel capitalismo che questo valore ha una priorità assoluta. Prima del capitalismo il denaro veniva accumulato per acquisire potere politico, economico ecc. Col capitalismo il denaro viene accumulato per se stesso, cioè anche dopo che si è ottenuto il potere politico, economico ecc. Il denaro diventa “padrone” di colui che lo possiede. Non sono tanto i beni acquistati col denaro che vengono accumulati, ma è il denaro stesso che viene accumulato. Il suo potere di astrazione raggiunge, nel capitalismo, la vetta suprema.

“Perciò -dice ancora Marx- nell'antichità il lavoro eccessivo appare in maniera incredibile dove si deve ottenere il valore di scambio nella sua indipendente forma di moneta, ossia nella produzione di oro e di argento. In questo caso, la forma ufficiale del lavoro eccessivo è lavorare sotto costrizione fino a che si muoia”(ib.). Nelle formazioni schiavistiche i metalli pregiati servivano per acquistare, ovvero per soddisfare bisogni di varia natura (materiali, di prestigio, di vanità ecc.); nel capitalismo invece servono per investire in attività produttive (o anche solo finanziarie) con le quali si possono accumulare capitali.

Marx ha colto bene le differenze fenomeniche, ma non ha compreso la causa culturale che le ha generate. Il passaggio da una formazione antagonistica pre-capitalistica a una capitalistica, è dipeso -a suo giudizio- dalla spinta “verso un mercato internazionale”(ib.), cioè dalla costatazione che la vendita dei prodotti all'estero poteva comportare maggiori profitti. Per Marx il capitalismo è nato a causa di un allargamento della sfera commerciale, la quale, a sua volta, presuppone una forte divisione del lavoro ecc. Non ci sono altre spiegazioni genetiche.

Se Marx si fosse preoccupato di analizzare in modo culturale l'origine delle diverse forme dei sistemi antagonistici, non avrebbe considerato la transizione al capitalismo come un evento necessario, ineluttabile. Inoltre avrebbe evitato di mettere sullo stesso piano “l'orrore barbarico della schiavitù, della servitù della gleba ecc.” con “l'orrore civilizzato dell'eccesso di lavoro”(p.286). La differenza infatti non sta semplicemente nel diverso tipo di sfruttamento, ma anche e soprattutto nel diverso tipo di civiltà.

Marx non trae alcuna positiva conseguenza dal fatto che “nella forma della corvée il pluslavoro è separato completamente dal lavoro necessario”(p.287). In altre parole, a un lavoro chiaramente “forzato” in una metà della giornata e “libero” nell'altra metà, egli preferisce un lavoro “forzato” per tutta la giornata, poiché ciò, a conti fatti, toglie ogni illusione al lavoratore e lo costringe a reagire.

Tuttavia, la figura dell'operaio risulta alquanto controversa nell'analisi del Capitale. Da un lato l'operaio sa sin dall'inizio che il capitalista compra la sua forza-lavoro per sfruttarla al massimo (poiché la forza-lavoro è una merce che crea un valore più grande di quanto essa stessa costi); dall'altro però l'operaio si ribella non tanto alla contrattazione sul mercato e neppure al primato dell'industria sull'agricoltura e l'artigianato, quanto piuttosto al fatto che la distribuzione del plusvalore è ingiusta perché privata, cioè si ribella solo quando s'accorge che il capitalista, per ottenere sempre più plusvalore, fa di tutto per prolungare la giornata lavorativa. “La voce dell'operaio, che s'era zittita nel turbine incalzante del processo di produzione, d'un tratto sorge” -dice Marx (p.282).

Il pregiudizio di Marx nei confronti del mondo contadino-feudale è ben visibile laddove egli parla della servitù della gleba e delle corvées nei principati danubiani. Il pregiudizio non era dovuto solo a una scarsa cognizione scientifica della formazione feudale (l'unico testo citato è quello di E. Regnault sulla Storia politica e sociale dei principati danubiani), ma anche e soprattutto alla convinzione che il mondo contadino, ostile di per sé alla transizione verso il capitalismo, non avrebbe mai potuto collaborare con gli operai per realizzare il socialismo, la cui transizione -secondo Marx ed Engels- presupponeva necessariamente lo sviluppo del capitalismo.

In una nota alla terza edizione, Engels ha evidenziato il proprio pregiudizio riconoscendo che il contadino tedesco, nel sec. XV, era sì obbligato alle corvées, ma per il resto era libero, de facto e, in certi territori, anche de jure. Engels mise questa nota per mostrare che la libertà goduta dai contadini danubiani non era molto diversa da quella dei contadini tedeschi. E tuttavia egli esprime questo giudizio sostenendo che i contadini tedeschi persero la loro libertà a causa della guerra contro i nobili, per cui essi non avrebbero potuto in alcun modo costituire un'alternativa al capitalismo.

Engels qui ha dimenticato di aggiungere che la sconfitta dei contadini, intenzionati a realizzare un comunismo agricolo, fu determinata, in primo luogo, non tanto dalla resistenza dei nobili, quanto piuttosto dall'appoggio che questi ottennero da parte della borghesia. In Germania la borghesia non riuscì a trovare nei contadini un potente alleato contro la nobiltà, perché sapeva che le loro rivendicazioni erano, sin dall'inizio, anche anti-borghesi.

Inoltre Engels non voleva ammettere la possibilità che, ai suoi tempi, in Russia il movimento anticapitalistico potesse trovare nel mondo rurale la sua base sociale prioritaria. Il pregiudizio stava appunto nel fatto che per Engels se i contadini tedeschi, che pur erano liberi, non riuscirono ad opporsi né alla nobiltà né alla borghesia, per quale ragione i contadini russi -per lui meno liberi di quelli tedeschi- avrebbero potuto costituire un'eccezione alla regola?

Per Marx il modo di produzione feudale delle province rumene era “primitivo”, ma non come quello della “forma slava o addirittura indiana”, che conoscevano solo la “proprietà comune”(p. 288) e che, per questo, impedivano all'uomo di formarsi come individuo libero. Tale giudizio era condiviso anche da Engels.

Per Marx non esiste libertà senza proprietà privata. Nelle province rumene “una parte delle terre era coltivata in forma indipendente dai membri della comunità, quale libera proprietà privata...”(ib.). Era questa proprietà che rendeva “liberi” e non quella “lavorata in comune” per avere un “fondo di riserva”, in caso di cattivi raccolti, o una sorta di “tesoro pubblico” col quale sostenere “le spese della guerra, della religione e di altri bisogni della comunità”(ib.).

La crisi di queste comunità sorse -secondo Marx- solo nel momento in cui “dignitari militari ed ecclesiastici usurparono la proprietà comune e allo stesso tempo i servizi che le erano connessi”(ib.). Per Marx la differenziazione della libera proprietà privata dalla proprietà comune non era un indice di regresso della comunità bensì di progresso.

Il pregiudizio di Marx nei confronti dei popoli slavi s'accentua proprio laddove egli afferma che fino a quando la “Russia liberatrice del mondo” (detto con ironia) non arrivò nei Balcani, la servitù della gleba era solo di fatto e non di diritto. Fu appunto “col pretesto di abolire la servitù della gleba [che essa] la sollevò a legge”(ib.).

In realtà, rispetto al feudalesimo turco e persiano, quello russo era sicuramente meno devastante, più sviluppato sul piano economico-culturale: non a caso fu accolto, almeno in un primo momento, dai contadini asserviti, come un evento liberatorio. E comunque la Russia intervenne solo in seguito alle sollevazioni dei contadini danubiani.

Quanto alle riforme del conte P.D. Kisilev, proprio con esse si voleva impedire uno sfruttamento dei contadini assolutamente arbitrario, come appunto avveniva nell'impero turco e persiano. Non solo, ma al conte Kisilev, ch'era ministro del demanio statale, si devono far risalire i tentativi, non riusciti, di mediare le esigenze della nobiltà feudale con quelle dell'emergente ceto dei contadini ricchi, che riceveva dall'erario crediti e aiuti agrotecnici.

Dovendo scegliere fra il Regolamento organico del conte Kisilev e i Factory Acts inglesi, Marx non ha dubbi: “queste leggi frenano l'impulso del capitale a sfruttare oltre misura le forze lavorative, tramite la limitazione della giornata lavorativa imposta in nome dello Stato...”(p. 290), limitazione -precisa Marx- “imposta dalla necessità”, quella di permettere alla forza-lavoro di riprodursi.

Ovviamente sarebbe assurdo sostenere che un qualunque “codice feudale” possa essere considerato più “democratico” di una qualunque legislazione statale sulla regolamentazione dell'orario di lavoro nelle fabbriche capitalistiche; e tuttavia non è meno insensato sostenere che mentre attraverso il Regolamento organico si faceva di tutto per “sfruttare” il contadino, attraverso i Factory Acts invece si cercava d'impedire lo sfruttamento selvaggio degli operai inglesi.

E' davvero singolare che uno storico come Marx non abbia compreso come nel primo caso l'osservatore deve dare per scontata la “libertà” dei contadini, mentre nel secondo caso deve dare per scontata la “schiavitù” degli operai. I nobili infatti non avrebbero cercato di fare l'impossibile pur di sfruttare i contadini se questi non avessero goduto di una relativa libertà. Viceversa, nei confronti degli operai tutto il possibile i capitalisti già l'avevano fatto, per cui agli operai non restava che lottare per avere un minimo di libertà.

Di fatto, il tipo di sfruttamento cui veniva sottoposto il contadino non ha mai conosciuto analoghe forme alienanti, oppressive e distruttive come quelle in cui si caratterizzò lo sfruttamento dell'operaio inglese (poi europeo, americano ecc.) agli albori del capitalismo. Si pensi solo all'impiego massiccio in fabbrica dei bambini, alle tante malattie professionali, alla fame causata dalla disoccupazione, alla breve durata della vita media, ma anche alla stessa intensità della giornata lavorativa, che praticamente conosceva solo le pause previste per il mangiare e il dormire. Le condizioni degli operai inglesi, “liberi cittadini” della loro nazione, non erano molto diverse da quelle degli antichi schiavi del mondo romano o delle civiltà pre-colombiane al tempo di Cortès e Pizarro.

Marx, peraltro, parlando dei Factory Acts, li presenta come se fossero nati da un'idea spontanea del governo inglese e non come il frutto della rivendicazione del movimento operaio. La “voce dell'operaio” -sorta a p.282, per far notare al capitalista, non senza un certo fair-play, che la forza-lavoro è una merce che, creando valore aggiunto, va comprata a un prezzo equo e usata in un tempo di lavoro ragionevole - s'è di nuovo spenta nel corso dell'analisi delle inumane condizioni di lavoro delle fabbriche inglesi.

Praticamente, secondo Marx, è stato “nell'interesse stesso del capitale adottare una giornata lavorativa normale”(p. 328), poiché esso s'è accorto che “il prolungamento della giornata di lavoro non produce solo il deperimento della forza lavorativa dell'uomo, derubato delle sue normali condizioni fisiche e morali, di sviluppo e di realizzazione. Essa produce anche l'esaurimento e il precoce spegnersi della forza lavorativa stessa”(p. 327). Il che, per un capitalista -dice Marx-, dovrebbe essere un controsenso. E' vero che “al capitale non interessa nulla quanto duri la vita della forza lavorativa”(ib.), ma è anche vero che se questa vita dura troppo poco “si rende necessario un più celere rimpiazzamento degli operai esauriti, perciò si rendono necessari maggiori spese per l'esaurimento della forza lavorativa che si deve riprodurre”(p. 328).

In che cosa consistano queste “maggiori spese” Marx non lo dice chiaramente. Esse non stanno, in effetti, nel salario, poiché fino a quando esiste una sovrappopolazione di ex-contadini ed ex-artigiani, i salari saranno tenuti sempre bassi. Esse neppure si riferiscono alla professionalità acquisita dall'operaio nel corso dell'attività lavorativa, poiché Marx aveva già escluso in precedenza la possibilità che esistano all'interno della fabbrica operai più importanti di altri, il cui plusvalore sia decisamente superiore. Le “maggiori spese” non consistono neppure nel fatto che se la forza-lavoro muore troppo velocemente, al capitalista restano invendute le merci con le quali essa dovrebbe riprodursi: infatti le merci del capitale inglese venivano allora vendute prevalentemente all'estero. Come avrebbero potuto acquistarle coloro che avevano salari da fame?

Secondo Marx le suddette spese si riferiscono semplicemente al fatto che con uno sfruttamento eccessivo si genera “un inevitabile spopolamento”(p. 333), anche se di questo il singolo capitalista non si preoccupa affatto. Le condizioni del neonato capitalismo erano così dure che la rovina più grave era anzitutto quella dell'annientamento fisico dei lavoratori. Oggi condizioni del genere si ritrovano solo in certe zone del Terzo mondo.

In realtà, la riduzione della giornata lavorativa, oltre ad essere stata l'esito di molte battaglie sindacali, è nata anche dal fatto che i capitalisti inglesi non potevano comportarsi in Europa come i loro colleghi negli Stati americani del sud, ove gli schiavi (già al tempo degli spagnoli) potevano essere tranquillamente rimpiazzati dalle riserve africane. La cultura euroccidentale, per quanto cinica fosse, non avrebbe permesso un trattamento analogo sui propri cittadini, anche se poi, alla resa dei conti, tra lo sfruttamento del libero operaio inglese e quello dello schiavo negro afroamericano la differenza era minima.

Viceversa, per Marx l'adozione di una giornata lavorativa normale è dipesa principalmente dal fatto che la “libera concorrenza” dei capitalisti ha determinato “un intervento coercitivo dello Stato”, nel senso che alla volontà dei singoli capitalisti di sfruttare ad libitum, si sono opposte “le leggi immanenti della produzione capitalistica come leggi coercitive esterne”(p. 334). Cioè a dire, quelle stesse ragioni che avevano portato il capitalista a distruggere il genere umano, per realizzare un profitto, lo hanno altresì portato a conservarlo per realizzare il medesimo profitto. A questo punto però diventa pura retorica sostenere -come fa Marx- che “lo stabilirsi della giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta di più secoli tra capitalista e operaio”(p.335).

Dalla sua analisi si può dedurre solo una motivazione alla nascita dei Factory Acts: evitare la strage dei lavoratori, o quanto meno che dalla loro degenerazione psico-fisica si abbiano delle ricadute negative sul piano del profitto economico. Una motivazione, questa, che appare chiaramente di ripiego, conseguente al fatto che i capitalisti inglesi non potevano sfruttare la manodopera salariata con la stessa libertà dei piantatori di cotone americani.

Considerare la legislazione sulle fabbriche inglesi del sec. XIX come più “democratica” rispetto agli statuti del lavoro inglesi dei secoli XIV-XVIII, semplicemente perché qui si cercava di “prolungare” la giornata lavorativa, mentre là di cerca di “abbreviarla”, significa non avere un elevato senso di storicità (cioè di obiettività) delle cose.

Nei secoli XIV-XV avvenne in Inghilterra, a causa della nascita dei rapporti mercantili-monetari, il tentativo da parte del ceto feudale e imprenditoriale di costringere i contadini e gli operai salariati a produrre più corvées o ad accettare bassi salari. Cioè la coercizione extra-economica era dettata da fattori esogeni, che non dipendevano dall'economia feudale in sé, per quanto proprio le contraddizioni del servaggio inducessero molti a cercare delle alternative nei commerci e nell'attività imprenditoriale a scopo di lucro.

Viceversa, nel secolo di Marx il capitalismo è stato costretto a diminuire il tempo della giornata di lavoro a causa degli squilibri ch'esso stesso aveva provocato, e non perché da qualche altra parte esisteva un modo di produzione alternativo che con tutti i mezzi cercava di farsi strada.

“Occorrono dei secoli -dice Marx-, affinché il “libero” lavoratore, in seguito allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, si adatti di propria volontà, cioè affinché sia socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi normali mezzi di sussistenza tutto il periodo attivo della propria vita...”(p. 335). Ciò è vero, ma è singolare che qui Marx faccia coincidere la necessità sociale di vendere sul mercato la propria forza-lavoro con la libera volontà di farlo. E' forse mai esistito un momento, nella storia del capitalismo, in cui la forza-lavoro si sia venduta sul mercato soddisfatta di sé, cioè nella consapevolezza che in tal modo essa avrebbe sicuramente e definitivamente superato i limiti del modo di produzione pre-capitalistico? Limitandosi ad osservare la resistenza degli operai al capitalismo, Marx non è mai riuscito ad accorgersi di quella del mondo contadino.

“Non appena la classe operaia, frastornata dal fracasso della produzione, cominciò in qualche maniera a riaversi, dette inizio alla sua resistenza...”(pp. 346-7). “Frastornata dal fracasso della produzione”? In realtà il contadino era diventato operaio dopo che per secoli aveva disperatamente lottato contro il capitale. Sì, era “frastornato”, ma per essere uscito pesantemente sconfitto da quella guerra. Sconfitta dovuta -qui ha ragione Marx- al proprio “isolamento”: “il lavoratore isolato, il lavoratore quale “libero” venditore della propria forza lavorativa, soccombe irrimediabilmente quando la produzione capitalistica è giunta a un certo livello di maturità”(p.375). Solo che tale “isolamento” -e questo Marx non l'avrebbe mai ammesso- non era affatto una caratteristica della società agricola, ma una conseguenza del capitalismo (nelle campagne).

Il fatto che, dopo essersi “riavuto”, il contadino, in qualità di “operaio”, abbia ricominciato a lottare contro il capitale, esigendo almeno una giornata lavorativa normale, ci aiuta senz'altro a capire lo scarso livello di consapevolezza politica del “mondo” che aveva lasciato, ma non ci autorizza a pensare che non vi fu alcuna forma di “resistenza” prima del lavoro in fabbrica. Non foss'altro perché proprio questo tipo di rivendicazione viene considerata, dallo stesso Marx, come il primo esempio di lotta operaia contro il capitale.

Ciò che più stupisce però è che Marx, dopo aver fatto un elenco incredibile di casi in cui il capitalismo mostra tutta la propria disumanità, considera l'adozione di una giornata lavorativa normale (il Bill delle 10 ore del movimento cartista) come una misura convincente per la risoluzione del problema dello sfruttamento capitalistico, quando tale riduzione -a detta dello stesso Marx- tornava utile proprio al capitalismo! Marx qui sembra farsi portavoce non degli interessi del proletariato, ma della borghesia imprenditoriale più progressista o più illuminata, la cui “scienza economica” aveva superato i limiti individualistici dell'economia politica classica (che portavano alla figura del “capitalista-vampiro”).

Quale borghesia, infatti, non ha accettato il Bill delle 10 ore? Quella più ottusa e rapace, quella che si è difesa riducendo i salari del 10%, ripristinando il lavoro notturno, eliminando gli intervalli legali per i pasti ecc., quella che ha provocato la disfatta del partito cartista, mettendo al bando la classe operaia: in sostanza quella stessa borghesia che alla fine ha dovuto adattarsi all'inevitabile, mettendosi “l'animo in pace”(p.371).

La prima edizione del Capitale è stata scritta nel 1867. Marx può qui costatare che dopo il 1860 “la forza di resistenza del capitale s'andava gradualmente indebolendo, mentre allo stesso tempo la forza d'urto della classe operaia s'ingrandiva col numero degli alleati che s'era procurata negli strati della società che non erano interessati direttamente”(p. 371). E così “si verificò un progresso relativamente rapido”(ib.).

Senza saperlo, Marx stava assistendo al passaggio del capitalismo dalla fase concorrenziale a quella monopolistica e imperialistica. Purtroppo egli non s'era reso conto come al miglioramento delle condizioni lavorative degli operai inglesi, dopo il 1860, avesse fatto seguito il netto peggioramento delle condizioni lavorative del sottoproletariato delle colonie inglesi. A suo parere, il progresso era avvenuto perché il capitale aveva accettato i propri limiti, permettendo alla lotta di classe di conseguire i suoi obiettivi. Infatti, anche se negli Stati Uniti il movimento operaio stava già lottando per una giornata lavorativa di 8 ore, il problema di far passare una posizione di principio il proletariato europeo l'aveva risolto: “è impossibile riuscire a compiere ulteriori avanzamenti verso la riforma della società, se dapprima non viene limitata la giornata lavorativa e non viene imposta obbligatoriamente l'osservanza della limitazione stabilita”(parole dell'ispettore di fabbrica inglese, R.J. Saunders, fatte proprie da Marx, p. 379).

In sé la considerazione era giusta. Il guaio però è che l'analisi di Marx, in questo capitolo, si ferma qui, lasciando così credere che la transizione al socialismo potesse avvenire in maniera graduale, di riforma in riforma. Con ciò, in sostanza, non si riesce a intravedere la consapevolezza che le riforme solo utili solo se aiutano gli operai ad acquisire quella maturità politica sufficiente a capire che una riforma senza rivoluzione non fa che perpetuare, razionalizzandola, la loro condizione di schiavitù salariata.

Marx conclude la III sezione, dedicata al plusvalore assoluto, sintetizzando nel cap. IX i risultati fin qui raggiunti. L'argomento in questione è il saggio e la massa del plusvalore. La determinazione del saggio del plusvalore, partendo dal valore costante della forza-lavoro, nonché dalla grandezza costante della giornata lavorativa, appare, nell'analisi di Marx, come un'operazione matematica relativamente facile, ed in effetti lo è, se si considera la forza-lavoro e la giornata lavorativa in una maniera astratta.

In realtà, né l'una né l'altra sono costanti, ma sempre soggette a un movimento reciprocamente opposto. Il capitalismo è come un letto di Procuste che incessantemente cerca di diminuire il valore della forza-lavoro e di allungare il tempo di lavoro per estorcere plusvalore. In tal senso, stabilire con gli strumenti della matematica un saggio regolare del plusvalore è quanto di più inutile si possa fare. Il calcolo razionale, economico, può avere una qualche ragione scientifica solo in un contesto sociale ove la produzione sia tenuta sotto controllo dagli stessi produttori e consumatori.

Anche nei confronti della massa del plusvalore, Marx è costretto a ipotizzare un valore medio della forza-lavoro, ovvero un operaio medio, che nella realtà non esiste. Si può parlare di “valore medio” in riferimento a una singola unità produttiva, ove gli operai fanno cose equivalenti. Ma appena ci si allontana dalle mansioni prevalentemente manuali e ci si avvicina a quelle intellettuali, ecco che il concetto di “valore medio” perde di ogni significato, e non solo mettendo a confronto le due diverse mansioni, ma anche all'interno della mansione intellettuale, ove la possibilità, per un tecnico, di distinguersi da un collega è assai maggiore di quella che può avere un operaio nei riguardi di altri operai. Persino tra quest'ultimi la possibilità di distinguersi è strettamente correlata all'applicazione di un ragionamento logico-funzionale a mansioni standardizzate, cioè ripetitive, al fine di modificarle in maniera creativa. La possibilità di modificare il valore delle cose, trasformandolo, è prerogativa della forza-lavoro appunto in questo senso, che è poi quello che frena il desiderio del capitalista di sostituire in toto l'operaio con la macchina.

Ciò ovviamente non significa ch'esiste la possibilità, nell'ambito del capitalismo, di pagare l'operaio o il tecnico per il plusvalore che produce. La forza del capitalismo sta proprio nella capacità che ha di estorcere un plusvalore maggiore sfruttando le doti intellettuali dei lavoratori.

Dunque è impossibile determinare il saggio medio del plusvalore nel lungo periodo. Non solo per le ragioni viste sopra, ma anche perché, sotto il capitalismo, nessun imprenditore può mai controllare al 100% le condizioni del mercato. Un capitalista avrebbe tutto l'interesse ad avere valori costanti che gli permettessero di realizzare un determinato profitto costantemente, ma siccome sa quanto ciò sia relativo, egli preferisce, anche in regime di monopolio, fidarsi dei risultati immediati, per i quali l'uso di ogni mezzo gli pare giustificato. Temendo l'incostanza del plusvalore, egli cerca di estorcerne, nel breve periodo, quanto più possibile.

Con la sua analisi economica, Marx ha offerto al capitalista l'illusione di poter razionalizzare il processo produttivo, evitando sprechi e investimenti sbagliati. Ma in tal modo egli non ha fatto che insegnare ai capitalisti come sfruttare al meglio gli operai. A forza di parlare dei “limiti tecnici” della produzione capitalistica, egli ha finito col proporre delle soluzioni che gli stessi capitalisti non potevano trovare che alquanto vantaggiose.

In tal senso, le tre leggi ch'egli delinea nel cap. IX, e che qui non val neppure la pena di esaminare, relativamente ai rapporti tra saggio e massa del plusvalore, numero degli operai e grandezza della giornata lavorativa, fanno certo più “comodo” al capitalista che all'operaio. Quale operaio, infatti, potrà esultare sapendo che “la offerta di lavoro che il capitale può estorcere diviene indipendente dalla offerta di operai”(p. 384)? Quale operaio potrà mai consolarsi sapendo che tale estorsione non può avvenire oltre “certi limiti”? Non si fa forse un favore al capitalista spiegandogli nel dettaglio il modo in cui può ovviare al peso di questi “limiti”? Non è singolare che sia stato proprio Marx a mostrare ai capitalisti come per ottenere maggiore plusvalore bisogna puntare di più sul capitale variabile e meno su quello costante?

All'operaio, in sostanza, non resta che prendere atto di un'amara verità: “non è più l'operaio che adopera i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che adoperano l'operaio. Piuttosto che essere consumati da lui come elementi materiali della sua attività produttiva, essi consumano lui come fermento del loro processo vitale, e il processo vitale del capitale non è altro che il suo movimento di valore che valorizza se stesso”(p. 392).

A questo punto, come non rimpiangere quell'epoca in cui “le corporazioni medievali cercavano d'impedire con la forza la trasformazione del maestro artigiano in capitalista, limitando a un massimo assai ristretto il numero dei lavoratori che il singolo maestro aveva il diritto di occupare”(p. 390)?

Qui però Marx ha ragione: piuttosto che un capitalismo “strozzato” è meglio un capitalismo “libero”, anche perché il primo sarebbe destinato con certezza ad essere superato dal secondo. Il fatto è che Marx, ogni volta che mette a confronto capitalismo e feudalesimo, riporta sempre degli esempi a favore del capitalismo. Questo accade perché egli intende riferirsi sempre al “basso Medioevo”, allorché le pressioni del capitalismo commerciale erano già così forti da indurre, ad es., le autorità corporative a reagire con la forza. Marx non vede in tale “reazione” il tentativo di salvare un ideale, ma il tentativo di comprimere la libertà.

Marx non ha mai analizzato il momento di passaggio dall'alto al basso Medioevo, cioè la transizione dall'economia di autoconsumo alla lotta di tale economia contro quella basata sullo scambio. Non a caso egli considera la nascita del capitalismo come una semplice conseguenza della possibilità, da parte del possessore di denaro o di merci, di anticipare una somma minima per la produzione, che superasse di molto il massimo medievale consentito. E qui Marx si avvale della legge hegeliana, secondo cui “variazioni meramente quantitative, giunte ad un certo grado, si riducono a differenze qualitative”(p. 390). Legge che, in ultima istanza, rifiuta di prendere in considerazione proprio il valore della libertà.

Esiste forse qualche legge cieca della storia “che obbliga la classe operaia ad effettuare un lavoro maggiore di quello che richiede la ristretta cerchia dei suoi bisogni essenziali”(p. 392)? Marx ovviamente risponderebbe di no, ma perché allora considerare “ristretti” i “bisogni essenziali”? Forse grazie al fatto che il capitalismo “supera in energia, smodatezza ed efficacia tutti i precedenti sistemi di produzione basandosi sul diretto lavoro forzato”(ib.), i suddetti bisogni si sono fatti meno “ristretti”?

Il plusvalore relativo

Il cap. X apre la IV sezione, invece di chiudere la III, come avrebbe tranquillamente potuto fare senza danneggiare l'architettura del Capitale, proprio perché questo capitolo ha la funzione d'introdurre il discorso sul macchinismo e la rivoluzione tecnologica e industriale vera e propria.

Il plusvalore relativo è infatti quello estorto sulla base della modificazione del processo lavorativo, in senso strutturale, e non più sulla base del prolungamento della giornata lavorativa: cosa, quest'ultima, che nell'analisi di Marx non implica un mutamento sostanziale nell'uso della tecnologia tradizionale. “In un primo momento il capitale sottomette il lavoro nelle condizioni tecniche, date dallo svolgimento storico, in cui lo trova. Per questo non modifica subito il modo di produzione”(p. 392).

Già abbiamo detto, a tale proposito, che, a nostro avviso, non si può parlare di “capitalismo moderno” se non si presuppone un diverso modo di usare la “figura tramandata storicamente” del processo lavorativo (p. 399). Il capitalismo non nasce solo come trasformazione del denaro in capitale, ma anche, contemporaneamente, come trasformazione del lavoratore in uno strumento “vivo” che deve innestarsi in altri strumenti tecnici lavorativi. Per Marx invece la “rivoluzione nelle condizioni di produzione”(p. 398), ovvero l'aumento della forza produttiva del lavoro, avviene solo dopo che il capitalista ha costatato l'impossibilità (a causa della legislazione statale) di prolungare la giornata lavorativa.

Il sorgere del plusvalore relativo è in realtà una conseguenza delle lotte operaie per la riduzione della giornata lavorativa; è cioè uno dei modi del capitale di riprendersi quello che era stato costretto a cedere in precedenza. Marx non la vede così, perché nella sua analisi il plusvalore relativo è soltanto un altro modo che il capitalista ha di sfruttare l'operaio. E' anzi il modo più intelligente, più razionale, poiché nel mentre si potenzia la forza produttiva del lavoro, si diminuisce il valore della forza-lavoro.

Il valore della forza-lavoro -Marx non si stanca mai di ripeterlo- è pari al tempo di lavoro necessario che occorre per riprodurlo. “Supponendo che un'ora di lavoro si esprime nella massa d'oro di mezzo scellino, ossia 6 pence, e che il valore della forza lavorativa è di 5 scellini per ogni giorno, l'operaio deve lavorare 10 ore al giorno per rimpiazzare questo valore giornaliero della sua forza lavorativa pagatagli dal capitale...”(p. 396)

Quanto poco “valore” abbia la definizione di Marx circa il “valore” della forza-lavoro, in un contesto capitalistico, è determinato, in questo caso, anche dall'esempio astratto ch'egli ha proposto. In effetti, se la forza-lavoro fosse pagata “in natura”, sarebbe immediatamente evidente la corrispondenza reale o illusoria tra il suo valore e il salario ricevuto. Siccome però essa viene pagata in denaro, tale corrispondenza diventa automaticamente molto relativa (anche prescindendo dal plusvalore non retribuito).

L'uso del denaro come equivalente universale, imposto dalla classe capitalistica, comporta una forma ulteriore di sfruttamento della manodopera salariata. Nel senso che solo astrattamente noi possiamo ipotizzare che col salario ricevuto la forza-lavoro è in grado di riprodursi. Concretamente infatti il “salario reale” è cosa assai diversa da quello “nominale”, poiché il capitalista può sempre far leva, più o meno arbitrariamente, sul rincaro dei prezzi dei beni di prima necessità. Dice Marx: “qualora sia determinato il valore dei mezzi di sussistenza, è determinato anche il valore della forza lavorativa”(p. 396). Ebbene, se nel capitalismo c'è qualcosa di altamente “indeterminato”, questo è proprio il valore dei mezzi di sussistenza.

Paradossalmente, neppure l'operaio sa quale sia l'esatto valore della sua forza-lavoro, poiché non può fare riferimento, sul mercato, a una stabilità di lunga durata dei prezzi che maggiormente gli interessano. Egli, in sostanza, al momento della contrattazione, può decidere solo in maniera approssimativa il salario da chiedere. E se è abituato a prendere bassi salari, egli, adeguando la propria vita a quelli già ricevuti, si convincerà che per sopravvivere non ha bisogno di un salario molto più elevato. Tale convinzione ovviamente viene meno quando i prezzi lo portano ai limiti della sopravvivenza.

Gli stessi prezzi rincarati, tuttavia, pur non portando un impiegato statale verso la medesima soglia di povertà, indurranno quest'ultimo a chiedere l'aumento dello stipendio, anche se, prima della richiesta, esso fosse già il doppio del salario dell'operaio. Dunque, pur con due retribuzioni molto diverse, sia l'operaio che l'impiegato lotterranno, a livello sindacale, perché la propria forza-lavoro venga pagata al suo valore, cioè per non scendere al di sotto che quello che entrambi, con due metri di misura diversi, considerano il “minimo vitale”.

Ecco perché una politica che si limita alla contrattazione sindacale lascia, alla lunga, il tempo che trova. Non foss'altro che per una ragione: gli aumenti retributivi che i sindacati riescono a strappare in favore di una categoria sociale, vengono pagati con i bassi salari di un'altra categoria sociale (ivi incluse quelle del Terzo mondo). Non solo, ma se gli operai prendono dei salari da fame, mentre le altre categorie di lavoratori, rispetto a quei salari, prendono degli stipendi discreti o almeno sufficienti, sul mercato i prezzi si rapportano a questi stipendi e non a quei salari, per cui la classe operaia non viene sfruttata solo dai capitalisti, ma, indirettamente, anche dagli impiegati.

Per Marx, al contrario, “contruibuiscono al ribassamento del valore della forza lavorativa l'aumento della forza produttiva e la conseguente riduzione di prezzo delle merci nelle industrie che forniscono gli elementi materiali del capitale costante, vale a dire i mezzi e i materiali di lavoro per la produzione dei mezzi di sussistenza necessari”(p. 399). Cioè a dire, il valore della forza-lavoro diminuisce se calano i prezzi dei beni di prima necessità e i prezzi dei mezzi produttivi che occorrono per questi beni.

Il ragionamento di Marx, di tipo matematico, ha valore solo in quanto astratto. Se le merci calano di valore perché per produrle occorre meno tempo di lavoro, è per lui una conseguenza logica che cali di valore anche la merce per eccellenza che le produce: la forza-lavoro. Anche se il salario “nominale” resta uguale, il capitalista realizza un maggiore plusvalore, poiché è diminuito il salario “reale”.

Qui non si discute il valore di questo ragionamento, ma semplicemente il fatto che il valore della forza-lavoro diminuisca solo perché diminuisce il valore delle merci di prima necessità e dei mezzi per produrle. Il realtà il valore della forza-lavoro diminuisce anche perché, dopo essersi conquistato un mercato più grande in virtù della riduzione dei prezzi di quelle merci necessarie, il capitalista, ottenuto il monopolio, si sente libero di alzare i prezzi delle merci (necessarie e facoltative) mantenendo inalterato il salario nominale dell'operaio. Cioè egli cercherà di strappare il massimo guadagno possibile facendo leva, in un secondo momento, proprio sul rincaro dei prezzi, tenendo sotto pressione i salari e gli stipendi con i quali i lavoratori devono comunque essere in grado di acquistare determinate merci.

Inoltre Marx, insistendo nell'equiparare il valore della forza-lavoro al valore dei mezzi necessari alla sua riproduzione, non si rende conto che nel capitalismo questa equiparazione, alla lunga, non ha alcun significato, poiché in assoluto non può essere vero che “l'aumento della forza produttiva non modifica affatto il valore della forza lavorativa nei rami della produzione che non forniscono né mezzi di sussistenza necessari, né mezzi di produzione adatti alla loro fabbricazione”(p. 399).

L'uso di un'analisi astratta ha portato Marx a credere che nel capitalismo l'imprenditore sia indotto a dare più peso alle cose necessarie alla riproduzione della forza-lavoro, che è poi quella che gli permette di realizzare il plusvalore. In realtà, una convinzione del genere il capitalista può averla solo agli albori del capitalismo. Infatti, appena egli si è impadronito, non tanto come individuo singolo ma come classe sociale, dei mezzi che producono i beni di prima necessità, il suo interesse, questa volta di individuo singolo (che può permettersi di fare certi investimenti, anche con l'aiuto dello Stato), verte prevalentemente su quelle merci che gli permettono il massimo valore aggiunto. Tanto è vero che la produzione dei beni di prima necessità viene affidata alle aziende minori, o addirittura trasferita dal capitalismo metropolitano verso la periferia coloniale (a meno che un'azienda non sia così grande da gestire rami produttivi di genere completamente diverso).

Di conseguenza l'operaio che produce merci non strettamente necessarie ma di alto valore tecnologico (ad es. un automobile o un computer), pur avendo, in proporzione al valore della sua merce, un salario assai ridotto, risulterà comunque un “privilegiato” rispetto all'operaio che produce altri beni, inclusi quelli cosiddetti “necessari” alla sua riproduzione, benché questo operaio prenda un salario più proporzionato al valore dei beni prodotti. Marx non poteva immaginare che il capitalismo, una volta diventato “sistema dominante”, sarebbe caduto in contraddizioni sempre più assurde; però poteva evitare di perdere del tempo prezioso ad analizzare delle contraddizioni che per essere risolte devono soltanto essere superate politicamente.

Il valore sociale di una merce, nel capitalismo maturo, non è più costituito “dal tempo di lavoro necessario socialmente per la sua produzione”(p. 402), bensì dalla volontà del capitalista, che detiene il monopolio in un ramo industriale, di trasformare in “sociale” il valore individuale di una determinata merce. Per farlo egli si avvale della forza produttiva del lavoro, la quale, potenziandosi o specializzandosi ulteriormente, può ridurre i costi di una singola merce, poiché “il valore delle merci è in ragione inversa della forza produttiva del lavoro”(p.404). Ma, una volta realizzata tale riduzione, al capitalista non resta che innescare quei meccanismi di persuasione (pubblicità ecc.) utili a far diventare un prodotto individuale di costo medio o medio-basso un prodotto sociale a costo elevato.

In regime di monopolio il costo effettivo di certe merci fabbricate con tecnologie sofisticate è di molto inferiore a quello che l'imprenditore realizza sul mercato. Perché il costo di queste merci si ribassi occorre che sul mercato si affacci un altro monopolista di forza equivalente. Ma anche in questo caso la nozione di “tempo lavorativo socialmente necessario” continua a non avere senso, poiché la necessità si riduce qui a un confronto di due colossi, non avendo nulla a che fare con le esigenze reali dei consumatori.

Il capitalista quindi, nella fase monopolistica, non sente affatto “l'obbligo di vendere la propria merce a un valore minore di quello sociale...”(p. 404), per realizzare (col maggior numero di merci vendute) un profitto maggiore. La sua esigenza in realtà è un'altra: quella di diminuire il valore individuale della merce aumentandone nel contempo, in maniera arbitraria, finché gli è possibile, il suo valore sociale. Questo perché “il valore assoluto della merce, considerato in se stesso, è indifferente al capitalista che la produce. A lui non interessa altro che il plusvalore racchiuso nella merce e che può realizzare con la vendita”(p. 405).

Marx non ha saputo trarre le conseguenze più estreme da questa sua pur giusta conclusione. Se al capitalista interessa unicamente il plusvalore, egli cercherà di realizzarlo non solo nel momento della produzione, ma anche in ogni altra fase del processo economico (dall'acquisizione della materia prima alla distribuzione del prodotto finito).

Quindi, quel capitalista che, “intento unicamente alla produzione di valori di scambio, cerca in continuazione di far scendere il valore di scambio delle merci”(pp. 405-6), sarebbe uno stupido se, dopo essersi in tal modo creato uno spazio sul mercato, non alzasse il valore di scambio delle sue merci. Infatti, dal momento in cui egli ha cercato d'imporsi al momento in cui vi è riuscito, egli si sarà dotato di mezzi sufficienti per difendersi dalle rivendicazioni operaie di maggiori salari.

Sarà stato lo stesso operaio che, non avendo reagito subito, politicamente, al proprio sfruttamento, avrà dato al capitalista la possibilità di potenziare economicamente le proprie risorse, parte delle quali potranno essere spese per allestire un sistema poliziesco con cui tenere sotto controllo il movimento operaio.

Ecco perché l'operaio, nel momento stesso in cui accetta una riconversione tecnologica dei mezzi produttivi, dovrebbe esigere, nello stesso momento (come minimo), un aumento sostanzioso del proprio salario, evitando di lasciarsi intrappolare nel ricatto del capitale per il quale con gli aumenti salariali non ci può essere ristrutturazione e senza questa c'è disoccupazione. Di fronte al persistere di un ricatto del genere, l'operaio dovrebbe reagire non sindacalmente ma politicamente.

A volte insomma si ha l'impressione che il capitalista descritto da Marx sia un individuo tenuto a rispettare le regole di un proprio galateo (beninteso “da vampiro”), ovvero che la “libera concorrenza” sia una legge che, rispettando certe condizioni, potrebbe anche funzionare. In realtà, il capitalista non si sente tenuto a rispettare altra regola che quella del massimo profitto col minimo sforzo.

Con un ultimo esempio cercheremo di dimostrarlo. Il capitalista, sapendo benissimo che, oltre un certo limite di tempo, la macchina, a causa del logorio, non può più trasmettere lo stesso valore alla merce, non si pone soltanto il problema di come sfruttare meglio la forza-lavoro nel momento della produzione, ma si pone anche il problema di come sfruttarla meglio nel momento della commercializzazione del prodotto. La macchina cioè deve essere sfruttata al massimo anche per “ingannare” il mercato (il che può comportare dei rischi sono se non si fruisce di una posizione monopolistica). Ingannare il mercato significa appunto produrre falsi bisogni, beni che hanno solo un valore effimero, apparente, o il cui valore di scambio è del tutto sproporzionato al loro effettivo valore d'uso. Oggi questa è una strada non meno praticata di quella che vede le aziende produrre beni di qualità, limitando al massimo le rivendicazioni salariali.




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