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SANITÀ PUBBLICA: CRONOLOGIA DI UN MASSACRO.

È lunga ma lineare la strada che ha portato al massacro della sanità pubblica nel nostro Paese. Tutto ebbe inizio, neanche a dirlo, con Berlusconi che ha usato la sanità pubblica per sviluppare i propri affari. Già il secondo governo Berlusconi (2001-2005) tagliò la spesa sanitaria con il decreto legge n.347 «Interventi urgenti in materia di spese per l'assistenza sanitaria» del 18 settembre 2001 c'è con la finanziaria del 2003 e le leggi collegate con le quali vennero attuati tagli alla spesa, riduzione del personale, aumento delle tasse con l'evidente obiettivo di smantellare il settore pubblico e il Servizio sanitario nazionale,  cancellare di fatto il diritto alla assistenza sanitaria in molte regioni e favorire così il dilagare del privato e la restaurazione delle mutue. Il disegno di Berlusconi e Tremonti prevedeva, infatti, da un lato il drastico taglio dei finanziamenti pubblici in nome del federalismo, dall'altro, il taglio di migliaia di posti letto, chiusura di centinaia di piccoli ospedali, tagli e privatizzazione di importanti funzioni delle Asl, reintroduzione dei ticket ed altre forme di compartecipazione alla spesa, il blocco delle assunzioni di personale, l'attacco alla applicazione del contratto nazionale di categoria. Nel progetto berlusconiano di affossare la sanità pubblica rientrarono anche i tagli alla spesa per la ricerca scientifica (di cui più di un terzo riguardava la salute) già scesa all'1,3% del prodotto interno lordo, contro la media dell'1,9% dell'Unione europea, e all'Università che contava 35 facoltà di medicina e chirurgia negli atenei pubblici italiani. Inoltre, la finanziaria del 2003 prevedeva anche il blocco degli ingenti fondi dell'art. 20 della legge 67/88 che sarebbero dovuti servire all'ammodernamento e ristrutturazione del patrimonio edilizio sanitario pubblico e che invece negli anni sono stati dirottati per l'avviamento delle attività privata a pagamento negli ospedali pubblici per poco più di 1,5 miliardi di euro.  Ma non finisce qui perché il governo Berlusconi fece scomparire anche i circa 15,5 miliardi di euro del Fondo Sanitario Nazionale che il governo doveva corrispondere alle Regioni nel 2001 e nel 2002, stanziando in finanziaria soltanto la miserrima somma di 164 milioni di euro. In più, le Regioni per accedere ai finanziamenti dovevano, nel rispetto del patto di stabilità interno,  annullare il proprio deficit sanitario, raggiungere il pareggio di bilancio, ridurre i posti letto da 4,5 a 4 per 1000 abitanti e i posti letto per la riabilitazione e la lungodegenza ridotti all'1 per 1.000 abitanti. Gli esuberi di personale derivanti dal taglio di almeno 56.000 posti letto e dalla chiusura di oltre  900 ospedali dovevano trovare posto nella ipotetica riconversione delle strutture dismesse e nei servizi domiciliari per anziani e pazienti cronici. Da ultimo, doveva essere ridotta la spesa farmaceutica al 13% del totale, mantenuta l'erogazione delle prestazione entro i «livelli essenziali di assistenza» (LEA) e tagliate le spese in beni, servizi, oppure applicata  l'addizionale IRPEF o altre leve fiscali. Dopo quello Berlusconi, anche altri governi – con l’eccezione di quello presieduto da Draghi, per motivi di emergenza sanitaria COVID19 – hanno tagliato sistematicamente fondi nonostante un crescente e costante aumento del fabbisogno sanitario nazionale, come emerge da un rapporto della Fondazione Gimbe sui tagli alla sanità nel decennio 2010-2019. Nel documento si calcola, per l'appunto, che il massimo dei tagli sia avvenuto tra il 2010 e il 2015, sotto il quarto governo Berlusconi e quello successivo di Monti, ritenuti i primi responsabili di questo dissesto con gli altri a seguire. In questo lasso di tempo sono stati sottratti, con varie manovre finanziarie, ben 25 miliardi di euro alla salute pubblica. Altri 12 miliardi di euro sono stati sottratti nel periodo 2015-2019 con un definanziamento che ha assegnato meno risorse al SSN rispetto ai livelli programmati. Complessivamente, quindi, in dieci anni sono stati sottratti alla sanità pubblica 37 miliardi di euro mediante il prelievo di fondi destinati alla spesa sanitaria per esigenze di finanza pubblica, sgretolando progressivamente – secondo l’analisi di Gimbe – la più grande opera pubblica mai costruita in Italia: il Servizio Sanitario Nazionale. In effetti, da sempre, il capitolo di spesa pubblica più facilmente aggredibile è quello della sanità come capì bene Berlusconi per sviluppare i propri affari, soprattutto in Lombardia, creando cliniche private, colossi della sanità con milioni di profitti come San Donato, San Raffaele, Humanitas. Si trattava di strutture eccellenti ma che non costituivano SSN, complementari ma non sostitutive. Eppure, il diritto alla salute è un bene pubblico che un governo dovrebbe costituzionalmente impegnarsi a garantire e a tutelare, non a emarginare a favore del privato. Mentre si tagliavano gli investimenti nella sanità pubblica  aumentava la spesa verso la sanità privata, che però si rivolgeva a prestazioni più remunerative e mostrava tutti i suoi limiti in caso di emergenza sanitaria. Scomparivano così i posti letto, quelli che a fatica in questo (prolungato) periodo si cerca di improvvisare, ricostruire, inventare come se gli ospedali fossero allestiti sul campo di guerra. A confermare la scure sui posti letto  è anche il «Rapporto Sanità 2018 - 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale» del Centro Studi Nebo con numeri che presentano la misura esatta dell’emergenza: dai 530.000 posti letto del 1981, di cui 68.000 dedicati all’area psichiatrica e manicomiale, ai 365.000 del 1992, dai 258.000 del 2020 ai 225.000 del 2022. Si stima che, negli ospedali italiani, ad oggi manchino almeno 100.000 posti letto di degenza ordinaria e 12.000 di terapia intensiva. In rapporto al numero di abitanti, siamo passati – ogni mille abitanti – da 5,8 posti letto del 1998, a 4,3 posti letto nel 2007, ai 3,6 posti letto nel 2017 per arrivare, nel 2021, a 3,1 posti letto.  L'Italia è sull’orlo del baratro da tempo e adesso guardiamo il precipizio, l’emergenza coronavirus ci ha aperto gli occhi. Opportuno, però, considerare le grandi riforme di contenimento della spesa sanitaria: quella del 2012 (governo Monti) e quelle a venire fino al governo Meloni. Sotto la spinta dell’emergenza economica – in pieno clima da “spending review” a seguito dei disastri procurati dal governo Berlusconi –  il governo Monti decise di usare l’accetta e imporre un taglio orizzontale del 5% delle uscite per tutte le Asl e per tutti gli ospedali: tagli imposti con le manovre finanziare 2011-2012 e con la legge 65 del 2012 della “spending review”. Un'operazione che sarebbe andata bene se l’Italia della sanità fosse stata  una, unita e omogenea, mentre invece il provvedimento di legge ha avuto un effetto boomerang, penalizzante per i distretti già sottofinanziati e inefficienti, incapace di eliminare lo spreco nei distretti più ricchi. Sono arrivati poi i governi Letta, Renzi e Gentiloni che non hanno introdotto alcuna inversione di tendenza per risollevare le sorti del sistema sanitario, anzi durante l'operato del governo Renzi va registrata la legge di Stabilità 2015, con la quale furono chiesti alle Regioni 4 miliardi di euro di contributo alle casse statali. Le Regioni, non sapendo da dove prendere i soldi, decisero di rinunciare all'aumento di due miliardi di euro di trasferimenti per le spese sanitarie che lo stesso Renzi aveva promesso. Ulteriore stangata, per così dire indiretta,  è arrivata dal primo governo Conte con l'introduzione di «Quota 100» precipuamente richiesta dalla Lega allora in coalizione con il M5S.  Un dossier intitolato “La spending review sanitaria” pubblicato a suo tempo dagli uffici della Camera dei deputati sottolineava come questo provvedimento avesse “acuito la grave carenza di personale, rischiando di compromettere l'erogazione dei livelli essenziali di assistenza”. Da ultimo, il governo Meloni sta continuando l’opera di definanziamento della sanità pubblica nonostante la premier abbia sostenuto  che il suo governo non ha fatto tagli, anzi, "i numeri dicono che non è vero. Il fondo sanitario nel 2024 è al massimo storico: 134 miliardi" specificando che anche "in rapporto al Pil quest'anno siamo al 6,88%, il dato più alto di sempre salvo l'anno del Covid. L'unica tesi che non si può sostenere è che abbiamo tagliato". Meloni non è nuova a queste dichiarazioni demagogiche ma, in realtà, è proprio il Documento di economia e finanza (Def) del 2024, pubblicato dal governo, che smentisce le sue affermazioni. Come si può leggere nella sezione dedicata alla sanità, nel 2023 il governo ha stanziato 131,1 miliardi di euro, lo 0,4% in meno rispetto al 2022, e per il 2025 la spesa per la sanità pubblica sarà inferiore di 3,6 miliardi di euro rispetto alle previsioni fatte l'anno scorso (2024) dallo stesso governo nella Nota di aggiornamento al Def, quando si prevedeva che la spesa sarebbe aumentata del 2,8%. E invece, come si legge in una postilla del documento, è diminuita per due motivi: (1) lo spostamento dal 2023 al 2024 dei fondi per il rinnovo dei contratti del personale dirigente e degli accordi per il personale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale tra il 2019 e il 2021, visto il "loro mancato perfezionamento" e (2)  la minore spesa dell'Unità per il completamento della campagna vaccinale e per l'adozione di altre misure di contrasto della pandemia, istituita dal governo Draghi. Lo slittamento dei fondi spiega l'aumento del 2024, per cui il Def fissa la spesa sanitaria a 138,7 miliardi di euro, il 5% in più rispetto al 2023. Effettivamente si tratta del dato più alto di sempre in termini nominali ma, travaso di fondi a parte, in relazione al Pil il quadro cambia: il finanziamento al sistema sanitario è praticamente piatto, a fronte di problemi e bisogni crescenti, e nel 2024 raggiunge il 6,4% del Pil, a dispetto del 6,8% menzionato da Meloni. E in più, per i prossimi anni il governo prevede una spesa sanitaria rispetto al Pil decrescente, come si vede dai numeri indicati nel Def, passando dal 6,4% del 2024 al 6,3% del 2025 e del 2026, per poi scendere al 6,2% del 2027. Se in questo tipo di confronto non si fosse valutato il Pil ogni anno ci sarebbe stato "il più alto aumento di sempre" come sostiene Meloni. Infatti, è più corretto considerare la spesa sanitaria in rapporto al Pil rispetto alle cifre isolate usate dal governo come evidenziato  dalla Corte dei Conti nella sua relazione al Parlamento sui servizi sanitari regionali laddove viene indicato che bisogna considerare l'inflazione oltre alla crescita del Pil stesso. Nel 2023, infatti,  la spesa per i redditi da lavoro dipendente nel settore sanitario avrebbe dovuto crescere del 4,5% rispetto all’anno precedente, pari, in valore assoluto, a + 1,8 miliardi di euro, un aumento di spesa in termini nominali ma sostanzialmente nullo in termini reali poiché pari al tasso di inflazione misurato, per il medesimo anno, dal deflatore del Pil che ha raggiunto proprio il 4,5%. Quindi, al netto della propaganda governativa, l'andamento della spesa sanitaria in rapporto al Pil continua a diminuire negli anni, anche se demagogicamente Meloni continua a sostenere, senza contraddittorio alcuno, che  è aumentata senza specificare però solo in termini nominali.

 

 

 





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