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LA QUESTIONE MERIDIONALE: UNA PREMESSA STORICA

La definizione di “questione meridionale” venne usata per la prima volta nel 1873 da un deputato radicale lombardo al parlamento italiano – Antonio Billia - che intese con questo termine definire la disastrosa situazione economica e sociale in cui versava il Mezzogiorno italiano all’indomani dell'unità d'Italia, allorquando le diverse realtà politiche ed economiche della penisola vennero riunificate sotto la corona sabauda. Fin dal 1861 è evidente il profondo squilibrio economico che divide in due l'Italia, che al nord presenta un modello di sviluppo di tipo capitalistico del tutto assente nelle regioni del Mezzogiorno d'Italia.

 

  • Agricoltura

I dati sottoelencati, approssimati e generici, ci danno un'idea di quella che era la situazione dell'agricoltura meridionale nei confronti di quella settentrionale. Le province dell'ex regno borbonico producono quasi la metà dei cereali e dei legumi, la metà delle patate, il 60% dell'olio, il 20% del vino e dei bozzoli di seta, la totalità degli agrumi e del cotone. Anche per ila produzione del tabacco e della frutta il Sud è in testa. Viene distanziato dal Nord per i bovini (che ne ha quasi il 90%) ma ritorna in testa per quanto concerne invece gli ovini e i caprini (più del 50%), per gli equini (60%) e per i suini (55%). Il Nord ha invece la totalità della produzione di riso per evidenti ragioni climatiche. Come si vede, pur con qualche settore in disavanzo rispetto al Nord, il Sud è tutt'altro che staccato. Anche per ciò che concerne la produttività della terra i dati ci dicono ad esempio che il Meridione con il 43,5% della superficie nazionale coltivata a cereali (la metà circa del terreno produttivo del Sud), ha il 47,7% della produzione; con il 32,4% dei castagneti ha il 36,5% della produzione. La popolazione attiva, e ciò fa assumere maggior rilievo alla cosa, era al Sud il 63% del totale (media italiana 57,4%), ma solo il 56,6% di essa lavorava in agricoltura contro il 59,7% della media nazionale. Da ciò può risultare evidente il carattere mercantile, concorrenziale e dinamico dell'agricoltura nel Sud e che non esisteva un serio divario tra Nord e Sud; divario che data invece, come vedremo, un'epoca posteriore.

 

  • Industria

Anche qui i dati sono evidentemente frammentari e incompleti. Ma è possibile ricavarne un quadro complessivo alquanto attendibile. Il solo dato globale è invece indicato dal censimento fatto nel 1861: il Sud aveva in quell'anno il 51% di tutti gli operai impiegati nell'industria italiana; il che contrasta decisamente con la visione di un Sud preindustriale o addirittura feudale di molti nostri noti meridionalisti. Ma vediamo la situazione industriale settore per settore. Nel campo della seta il Nord era in netto vantaggio, ma più per la estensione della produzione che non per il livello tecnologico (le imprese del Nord erano disperse, arretrate e poco meccanizzate, mentre esisteva al Sud l'opificio di S. Leucio conosciuto in tutta Europa e la cui produzione veniva largamente esportata). Nel campo cotoniero, prendendo a paragone le punte più avanzate, il dato è indicativo: al Nord la Lombardia produce 16 milioni di metri di tessuto complessivamente; al Sud la Campania con i soli stabilimenti meccanici, minoritari rispetto alla diffusissima lavorazione a domicilio, ne produce 13 milioni (il più grosso opificio lombardo, la Filatura Ponti, nel 1848 aveva 414 operai contro i 1300 della Egg di Piedimonte). Nel settore laniero il Nord aveva un leggero margine di vantaggio in quanto industria un po' più estesa quantitativamente ma meno concentrata qualitativamente. Il settore cantieristico vede invece il Sud in vantaggio: nei due soli grandi cantieri del golfo di Napoli lavorano 3400 operai su 6650 del ramo in tutta Italia. A Castellammare ci si organizza per la lavorazione di scafi in ferro mentre Napoli diventa il maggior centro italiano per la produzione di macchine e motori marini. L'arsenale-cantiere di Napoli impiega 1600 operai (a Castellammare 1800) ed è l'unico ad avere un bacino di carenaggio in muratura lungo 75 metri (la flotta napoletana e siciliana ricopriva i 4/5 del naviglio in tonnellaggio dell'intera flotta italiana e possedeva 20 piroscafi a vapore. Le cartiere erano fiorentissime ed avevano registrato una espansione e una capacità produttiva a livello europeo. Per ciò che riguarda la siderurgia il Sud impiegava 20 mila operai: 4000 in meno rispetto al Nord. Ma il confronto è senz'altro favorevole al Sud per il maggior grado di concentrazione ed il miglior livello tecnico delle sue aziende (solo l'Ansaldo di Genova era a livello di grande industria ma aveva 480 operai contro i 1000 di Pietrarsa a cui si accostavano la Zino ed Henry con 600 operai e la Guppy con altrettanti operai e ad altissimo, riferito all' epoca, contenuto tecnologico). Inoltre, due fabbriche delle tre italiane per fabbricare locomotive erano al Sud. Per le industrie estrattive lo zolfo siciliano copriva il 90% della produzione mondiale (prima metà dell'800) e assorbiva 1/3 degli operai del settore.

 

L’UNITA’ D’ITALIA E LA QUESTIONE MERIDIONALE

La questione meridionale comincia a delinearsi sin dai primissimi anni post-unitari in Italia Ciò in virtù di una politica selvaggia di accentramento portata avanti dallo Stato unitario ai danni dell'economia del Sud; politica resa possibile, date certe particolari caratteristiche della struttura sociale del meridione d'Italia a cui prima abbiamo accennato: la borghesia autoctona, avente in mano le maggiori deve del potere economico, si identificava nella sua quasi totalità nelle persone fisiche appartenenti al precedente regime borbonico che, una volta crollato, l'ha trascinata con sè nella catastrofe. Era quindi in prevalenza una "borghesia di stato" che ha condiviso le sorti tristi del potere in cui direttamente si incarnava. La borghesia libero-scambista (rurale e industriale) era invece meno consistente e pur col suo spiccatissimo spirito imprenditoriale non riuscì a farsi valere dal nuovo stato unitario. Anzi, una volta iniziato il processo di devastazione economica del Sud (vedremo come), per la logica che induce il capitale a ricercare alti livelli di autovalorizzazione è stata spinta ad investire al Nord, rendendosi così, in prima persona, responsabile del progressivo deteriorarsi economico del Sud (ma le condizioni erano state create ed esasperate dall'intervento capitalistico e "colonizzatore" del settentrione). Il capitale straniero anch'esso dovette spostarsi, alla ricerca di più alti profitti, verso Nord dove era già consistentemente presente lasciando il Sud alla mercé della borghesia industriale del Nord che, rapidamente, porta la situazione economica del Meridione a livelli esasperati. La borghesia del Nord (in quanto politicamente unita), è identificabile con le forze che mossero alla realizzazione dell'unità d'Italia tanto da costituire un blocco politico-economico in grado di muovere gli interventi del nuovo potere nella direzione voluta e, quindi, a proprio esclusivo vantaggio. Altro fatto certamente non determinante ma egualmente degno di considerazione è la collocazione geografica del Nord: vicino all'Europa industrializzata, coi suoi mercati facilmente raggiungibili era estremamente favorito rispetto al Sud nelle relazioni commerciali di import-export con la maggior parte dei paesi europei.

 

  • Lo sfruttamento del Mezzogiorno: l’accumulazione di capitale

Lo Stato unitario operò drasticamente processo cli sfruttamento del Meridione finalizzato ad una accelerata accumulazione capitalistica al Nord. In primo luogo, la politica fiscale perseguita dallo Stato per consentire un vero e proprio drenaggio di capitali dal Sud al Nord. La pressione fiscale, già notevole al tempo dei Borboni, sotto i Piemontesi venne ad accentuarsi in maniera sperequata rispetto al Nord. Mentre prima dell'unità si pagavano 50 milioni di imposta fondiaria, se ne pagheranno 70 nel 1866 contro i 52 del Centro e del Nord uniti. La sperequazione è più evidente se si considerano i tassi di incidenza per ettaro; nelle province di Napoli e Caserta si pagavano 9,6 lire per ettaro contro una media nazionale di 3,33 lire e una media in Toscana, regione fertilissima, di 2,33 lire per ettaro. La spesa pubblica viene concentrata al Nord così come avviene per quasi tutte le opere pubbliche: per le spese di opere idrauliche in campagna la media pro-capite fu di 0,39 lire per abitante nel Mezzogiorno continentale, di 0,37 lire in Sicilia contro una media nazionale di 19,71 lire. Anche le scuole si distribuiscono in modo estremamente sperequato; vengono incrementati inoltre i disagi dei trasporti, settore in cui il Sud partiva già svantaggiato: diventa adesso costosissimo far circolare le merci con conseguenze di ristagni nei mercati locali. Insomma, lo Stato dava al Sud la terza o la quarta parte di quel che dava al Nord e ciò avveniva concentrando capitali nell'alta Italia dove si concentravano anche gli uffici statali (uffici amministrativi, magistratura, esercito, polizia, ecc.). La sperequazione si rifletteva (o ne era il riflesso) sulla situazione politica: il solo Piemonte ebbe fino al 1898 ben 41 ministri nei vari gabinetti contro 47 dell'intero Meridione.

 

  • Lo sfruttamento del Mezzogiorno: il sistema bancario

In quanto al sistema bancario meridionale, a cui lo Stato unitario sferrò un attacco poderoso. La forza del Banco di Napoli preoccupava i banchieri del Nord e la stessa Banca Nazionale che decisero di strozzarla tentando di ridurlo, pressappoco, ad un semplice monte di pegni. Il tentativo fu relativamente difficile essendosi la borghesia meridionale serrata attorno al proprio istituto; rendendo impossibile la riforma per la costituzione di una banca unica di emissione nella quale al Sud sarebbero spettate solo 1/5 delle azioni. La Banca Nazionale, che dopo l'unità era scesa al Sud per fare concorrenza al Banco di Napoli nel frattempo modernizzatosi rispetto all'epoca dei Borboni, fatica non poco nel volgere i rapporti di forza, in parità fino al 1860-66, a proprio vantaggio. La maggiore disponibilità di capitali della prima trovava come opposto non meno importanti fattori di una maggiore circolazione e riserva aurea del secondo. Allora si passa alle maniere forti: si vieta oppure si ritarda l'apertura al Nord delle filiali del Banco di Napoli il cui ampliarsi e l'estendersi delle proprie zone d'intervento diventa vitale, nel contempo che si dà inizio alla politica di drenaggio delle sue riserve auree che appare come tentativo di privare il Sud del suo oro e delle sue capacità di credito. Il compito era semplice e si realizzava con l'intervento delle numerose filiali che la Banca Nazionale aveva aperto al Sud le quali vendevano ai risparmiatori i titoli del debito pubblico ottenendo i risultati di ampliare la quantità di debito pubblico gravante sul Sud, di succhiare moneta del Banco di Napoli con ovvi danni alla sua politica di espansione, e di indebolire la struttura del Meridione mediante la strozzatura del suo credito. La legge sul corso forzoso varata nel 1866 continua coi suoi effetti devastatori la politica mirante all'indebolimento del Sud. Anche se le giustificazioni addotte – motivi patriottici: la guerra con l'Austria rendeva necessario allo stato grosse riserve auree; motivi congiunturali: difficile situazione dell'industria messa in difficoltà dalla concorrenza straniera – in relazione a detta legge fossero, come in parte furono, dettate da necessità, resta da spiegare perché il principio della inconvertibilità avesse escluso soltanto la moneta del Banco di Napoli e non, ad esempio, quella della Banca Nazionale a cui premeva invece, ed è questo un motivo, di indebolire le enormi riserve auree del suo diretto competitore. Questo permise al Nord di superare la crisi mediante la dilatazione del credito, mentre al Sud – che continuava a sborsare oro – con la sua restrizione verranno compromesse in maniera irreversibile le possibilità di sviluppo industriale ed economico; fino alla completa acquisizione del Banco di Napoli al sistema creditizio settentrionale.

 

  • Lo sfruttamento del Mezzogiorno: sterilizzazione di industria e agricoltura

Allo stesso modo viene attaccata l'industria con la strozzatura delle commesse e conseguente chiusura di stabilimenti, lenta decadenza degli arsenali e dei cantieri che sono lasciati languire, abbassamento dei dazi protettivi, sistematica politica di rapina e di sfruttamento. Nemmeno l'agricoltura si salva da questo tipo di sfruttamento delle risorse messe in atto dallo Stato, anche se i primissimi anni post-unitari avevano fatto registrare un'espansione tale da inserirla in ambito internazionale mediante un processo di riconversione indirizzato verso le colture d'esportazione. Ma un paese relativamente arretrato nel contesto europeo come l'Italia non riesce a sostenere l'attacco delle potenze straniere che inflazionano il mercato coi prodotti a bassissimo costo provenienti dalle colonie in cui è possibile, mediante un intensivo e criminale sfruttamento, ottenere merci, sia agricole che industriali, a contenutissimi costi di produzione. Molti paesi, quelli più deboli, ricorrono al protezionismo per non essere schiacciati dalla concorrenza internazionale e non correre il rischio di mandare a monte molte tra le più importanti colture quali canapa, riso, gelso. Anche l'Italia seguì tale indirizzo ma il provvedimento (1887) colpisce però Nord e Sud in maniera diversa in quanto il Sud era stato indirizzato proprio verso le colture d'importazione ed è così costretto a comprare manufatti industriali al Nord a prezzi di monopolio, assoggettandosi alle leggi di uno scambio diseguale. Avviene pertanto una vera e propria fuga di capitali verso il Nord che finivano inevitabilmente per confluire verso i settori industriali e più industrializzati. All'inizio del 1890 tutta l'agricoltura meridionale è prostrata. Il disegno geopolitico della borghesia unitaria era stato completato: al Sud spettava principalmente fornire al Nord capitali, mano d'opera a basso prezzo e prodotti agricoli in cambio di manufatti provenienti dal Nord e scambiati in ragione diseguale. La "questione meridionale" è ormai diventata realtà.

 

PRIMI APPROCCI ALLA QUESTIONE MERIDIONALE

 

Il primo ad interrogarsi risolutamente sulla questione meridionale fu Pasquale Villari che nel 1875 pubblicò le "Lettere Meridionali". Uomo della destra storica, il Villari denunciò lo stato di crisi in cui versava il mezzogiorno, indagando soprattutto sull’inefficienza e la debolezza delle istituzioni politiche, che non erano riuscite a radicarsi nel territorio. La difficile situazione del meridione poteva essere risolta, a suo parere, solo riavvicinando il governo ai contadini meridionali, operando quindi una netta svolta nella politica della Destra storica, che per raggiungere il pareggio di bilancio non aveva esitato ad imporre tassazioni impopolari al contadiname, cosa che aveva creato forti tensioni con il proletariato agrario e industriale sia del nord che del sud Italia. Il vero soggetto su cui si doveva puntare per una trasformazione radicale della situazione meridionale era però per il Villari la borghesia terriera, che doveva essere persuasa al cambiamento, secondo la formula già utilizzata in Inghilterra dai conservatori inglesi che avevano inteso che era necessario “riformare per conservare”. La tesi del Villari però difettava nella mancanza di analisi delle vere ragioni della persistenza di modelli semifeudali nella società meridionale e soprattutto era incapace di cogliere il ruolo ormai secondario che avrebbe svolto l’agricoltura nel sistema economico e sociale italiano degli anni a venire. Più approfondite e scientificamente più fondate risultavano invece le analisi prodotte da Franchetti e Sonnino negli anni immediatamente successivi. Sonnino concentrava la sua attenzione sulla realtà siciliana indagandone l’organizzazione della proprietà e i rapporti di produzione e derivando da quest’analisi le strategie per il miglioramento della situazione. Sonnino, aristocratico e colto conservatore, era scandalizzato dalle pratiche sociali ed economiche adottate dalla borghesia terriera meridionale, interessata solo a sfruttare al massimo le proprie risorse e i propri dipendenti. Il problema del Mezzogiorno, sosteneva giustamente Sonnino, era la permanenza a livello economico ma anche sociale della proprietà latifondista di origine feudale, che impediva lo sviluppo di una moderna economia di mercato. Per risolvere la crisi, Sonnino sosteneva la necessità di una moderata riforma dei patti agrari e più in generale intendeva esportare nel sud Italia il modello mezzadrile in vigore in Toscana. Proprio in questa aspirazione a riproporre il modello paternalistico toscano - di cui egli stesso era interprete - stava il grave limite dell’analisi sonniniana, incapace di comprendere l’enorme diversità di ispirazioni e storia tra l’alta borghesia settentrionale e quella meridionale, interessata solo “alla massima accumulazione di capitale”. Nella storia dell’economia italiana e in quella della questione meridionale, un momento particolarmente importante è quello della svolta protezionistica del 1887. Il provvedimento viene varato sulla scorta di quelli approntati da quasi tutte le nazioni europee, con l’eccezione inglese, nello stesso periodo e che sono volti sia a tentare di porre un argine alla crisi agraria che al rafforzamento della produzione industriale, considerata adesso un elemento chiave per lo sviluppo delle economie nazionali. Le tariffe protezionistiche rendono difficile l’importazione di merci e favoriscono in tal modo l’industria nazionale che può immettere sul mercato interno i propri prodotti senza doversi preoccupare della concorrenza straniera. Si tratta di provvedimenti che rendono possibile grandi accumulazioni di capitali all’industria, che si giova anche delle commesse statali per le opere pubbliche e per le forniture militari, e che però penalizzano notevolmente i semplici cittadini, costretti ad acquistare merci a prezzi più elevati che in passato, quando vigeva un sistema di concorrenza. La fine dell’economia liberista segna anche l’avvento del mito della forza della nazione, alla quale i governi decidono di sacrificare il benessere dei cittadini: il bene comune appare ora un valore superiore della volontà del singolo. In Italia, il provvedimento ha notevoli ripercussioni anche sullo sviluppo economico del sud Italia. Al nord infatti esiste, almeno in nuce, una struttura industriale pronta a cogliere i benefici derivanti dalle tariffe protezionistiche e anzi è proprio la classe imprenditrice del nord a domandare l’applicazione di queste leggi. Al sud, al contrario, non esistono poli industriali di rilievo, perché i pochi presenti sono stati spazzati via dalla concorrenza sorta durante i primi anni di libero mercato. La tariffa protezionistica avvantaggia in questo senso indubbiamente il nord Italia, amplificando le distanze con il mezzogiorno. Eppure, a varare queste tariffe, è il primo governo della Sinistra Storica, guidato da De Pretis, politico di origine meridionale, ed espressione del crescente peso politico delle regioni del sud d’Italia. Perché dunque i politici meridionali accettano passivamente questo blocco protezionista che affossa l’economia meridionale? Si tratta di una delicata fase di passaggio, in cui viene formandosi l’alleanza tra classi sociali che controllerà il paese per molti anni a venire. La tariffa protezionistica, che è estesa anche alla produzione agricola, legherà indissolubilmente la proprietà terriera meridionale e la proprietà industriale e capitalistica settentrionale. La borghesia latifondista del sud viene avvantaggiata da dazi doganali che mantengono forzatamente competitiva la produzione agricola sul mercato interno, anche se questa si basa su processi di produzioni arcaici e arretrati. La produzione di cereali, che ad esempio sarebbe stata spazzata via dalla concorrenza dei prodotti americani, si mantiene viva proprio grazie alla protezione doganale. L’accordo tra produttori del nord e latifondisti del sud ha però conseguenze estremamente negative per il meridione. Il vecchio sistema di sfruttamento economico in vigore al sud viene artificialmente mantenuto in vita e con esso si cristallizza anche l’arcaico sistema sociale già descritto e criticato da Sonnino. La proprietà agraria meridionale continua nel suo sfruttamento della classe contadina e nei suoi atteggiamenti feudali, conservando e anzi rafforzando il proprio potere politico attraverso l’alleanza con gli industriali del nord. Ma questi ultimi hanno in realtà la guida del paese e costituisco il settore più moderno e avanzato dell’economia italiana e lentamente al nord l’incremento della produzione industriale dà benefici anche al proletariato industriale, seppure attraverso numerosi momenti di crisi, come quello attraversato a fine secolo. Il consolidarsi del blocco di potere dominante non impediva tuttavia l’emergere di voci di dissenso, che riproponevano il problema dell’arretratezza del mezzogiorno. A contestare l’insano equilibrio provvedevano talvolta esponenti della stessa borghesia agraria meridionale, che rifiutavano il modello di sviluppo economico italiano: due di questi erano Giustino Fortunato e Antonio De Viti De Marco. Giustino Fortunato si preoccupò inizialmente di tracciare un quadro della situazione meridionale basandosi su strumenti d’indagine di tipo positivista. L’esigenza di combattere il diffuso razzismo verso i meridionali - accusati di pigrizia e indolenza - e di sfatare il mito del sud come terra opulenta, lo indusse ad una descrizione minuziosa della realtà fisica del meridione. L’arretratezza del meridione era dunque almeno in parte dovuta alle difficoltà ambientali che dovevano affrontare i suoi abitanti, come i terreni argillosi e cretosi, le lunghe siccità, la malaria e l’isolamento geografico. Ovviamente lo stesso Fortunato era consapevole che da solo quest’argomento era insufficiente per rendere conto delle difficoltà in cui versava il meridione, ma lo utilizzava per spazzare il campo da facili pregiudizi che si andavano diffondendo anche per la crescente popolarità delle tesi di Lombroso. Fatte queste premesse Fortunato procedeva ad una analisi critica della situazione, accusando anch’egli la borghesia meridionale per la totale mancanza d’intraprendenza economica. Dapprima Fortunato ritenne di poter individuare nello Stato unitario il motore della trasformazione meridionale, attraverso un nuovo orientamento della politica fiscale e doganale e tramite l’onesta amministrazione della cosa pubblica. Ma presto questa speranza in uno Stato “così forte di autorità e di mezzi da condurre tutto il popolo italiano sulle vie della coltura della morale della pubblica ricchezza” venne meno e Fortunato ricercò altrove i possibili correttivi della situazione. Ripose quindi le sue speranze nello sviluppo di una economia pienamente liberista ma dovette ammettere che vane erano le speranze nelle “libere energie vitali” della borghesia meridionale. Fu così che egli si orientò su posizioni decisamente pessimistiche, nel quale come ha scritto Franco Gaeta “a lui non sarebbe stato possibile che abbracciare un pessimismo radicale e virile nel quale la condanna della borghesia meridionale avrebbe fatto tutt’uno con la censura apposta a tutto il processo risorgimentale”. Anche Antonio De Viti De Marco, grande produttore vitivinicolo pugliese, ripose le proprie speranze nel liberalismo economico come strumento della trasformazione del meridione. Egli criticò il recente sviluppo capitalistico italiano, sostenendo che esso era avvenuto avvantaggiando il nord a discapito del sud e che l’intero processo era patologico e artificioso perché avvenuto in deroga ai principi liberali. Nella sua idea la fine del protezionismo avrebbe permesso lo sviluppo di una agricoltura capitalistica anche nel sud Italia, liberata dalle pastoie. La tesi di Antonio De Viti De Marco era però inficiata da un grave errore prospettico, perché prevedeva e auspicava per l’Italia e non solo per il meridione uno sviluppo economico basato sulla prevalenza dell’agricoltura a discapito di quello industriale che, se applicato, avrebbe condannato l’Italia al sottosviluppo. Tesi completamente opposta era invece sostenuta ad inizio secolo da Francesco Saverio Nitti, che nel primo dopoguerra diventerà presidente del consiglio. Pur senza concessioni all’autocommiserazione vittimistica, Nitti sottolineava come la povertà del meridione fosse in parte determinata da un processo di unificazione che aveva sottratto ricchezze al sud attraverso la tassazione per riversarle sotto forma di spese pubbliche al nord Italia. L’analisi di Nitti, parzialmente veritiera, non conduceva però ad una assoluzione della borghesia meridionale, i cui modi venivano anzi duramente criticati: “E’ innegabile che politicamente i meridionali abbiano rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d’ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali”. Come modificare la situazione che vedeva il sud-Italia arretrato economicamente ma anche politicamente e socialmente? La risposta di Nitti era nello sviluppo dell’industria anche nel meridione. La trasformazione industriale avrebbe modificato anche la società, stimolando la nascita di una borghesia produttiva. E per sviluppare l’industria, occorreva una decisa azione del governo, che doveva sopperire alla mancanza di capitali disponibili per gli investimenti. Come fare? Lo Stato avrebbe dovuto anzitutto varare una riforma tributaria che favorisse gli investimenti produttivi nel sud soprattutto da parte dell’industria settentrionale che era in fase espansiva e aveva capitali da investire, oltre che tecnici e imprenditori capaci di avviare il progetto. Aspetto principale della riforma proposta da Nitti era l’avviamento di un processo di industrializzazione di Napoli, città che stava attraversando un crescente degrado: “Il disordine della vita pubblica quale esso sia, è poca cosa di fronte al disordine profondo, alla depressione crescente della vita economica[...] Molte sono le forze ritardatrici: poche e scarse quelle che operano in senso utile. La borghesia è composta in gran parte da avvocati e medici: di classi che vivono dunque di due calamità sociali: la lite e la malattia; mancano, fatte pochissime eccezioni, elementi industriali operosi”. Napoli doveva dunque trasformarsi in un polo industriale capace di dare nuovo respiro all’economia meridionale e per farlo era necessario un deciso intervento dello Stato, che in deroga ai principi liberali avrebbe potuto ad esempio municipalizzare la produzione energetica per favorire lo sviluppo di nuovi stabilimenti. Ma il progetto nittiano venne realizzato solo in parte, con la costruzione delle acciaierie di Bagnoli, che però non modificarono né l’economia cittadina né tantomeno la situazione economica complessiva del meridione. L’irrisolta questione meridionale continuò così a tormentare le coscienze degli uomini politici e soprattutto degli intellettuali del sud Italia. Nuove ipotesi e nuovi studi furono intrapresi da Gaetano Salvemini, allievo di Villari a cui succedette alla cattedra di Firenze. Salvemini si interessò per tutta la vita alla questione meridionale e pertanto le sue tesi e prospettive risentono dei diversi orientamenti politici e intellettuali di una lunga carriera. Inizialmente collocato su posizioni marxiste, Salvemini fu tra i primi a parlare del ruolo che le masse contadine avrebbero potuto e dovuto assumere nel processo di trasformazione del meridione. Lo storico pugliese fu uno dei primi meridionalisti a guardare ai contadini non come una massa inerte incapace di storia ma come un soggetto determinante per cambiare la società e l’economia del sud Italia. L’idea di dare ai contadini l’opportunità di incidere sulla loro storia rimase punto fisso del pensiero di Salvemini, anche quando si spostò da posizioni marxiste a posizioni democratiche ispirate alle idee federaliste del Cattaneo. Il suffragio universale gli apparve come il metodo più idoneo per dar voce alle masse meridionali e per molti anni si batté per veder realizzato questo progetto politico, che si compì nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale. L’approvazione del suffragio universale maschile ebbe come conseguenza l’affermarsi del Partito Socialista e del Partito Popolare alle elezioni politiche del 1919. E se il Partito Socialista faticò a lungo, sia prima che dopo queste elezioni, ad affrontare con rigore la questione meridionale e a presentare ipotesi congiunte per una sua risoluzione, Don Luigi Sturzo fu uno dei più lucidi interpreti di questa realtà nei primi anni del Novecento. Il fondatore del Partito Popolare sostenne la necessità di difendere e rafforzare la piccola proprietà contadina meridionale, in cui vedeva l’unica forza capace di opporsi con successo ai latifondisti assenteisti. Sturzo intendeva favorire la nascita e lo sviluppo “di quel ceto medio economico, che è molto limitato nel mezzogiorno, e che è uno dei nessi connettivi più saldi della società”. Con questa politica egli si opponeva sia al conservatorismo di destra che al rivoluzionarismo di sinistra. Rispetto al primo, il suo progetto prevedeva il coinvolgimento di quelle masse che invece era aborrito dal liberalismo conservatore di un Salandra o di un Sonnino; rispetto ai socialisti, che andavano reclutando nelle file delle confederazioni sindacali i braccianti e il proletariato urbano, si proponeva come alternativa di stabilità sociale contro gli intenti rivoluzionari dei primi. Se Sturzo in perfetta sintonia con l’ispirazione cattolica del suo partito rifuggiva la conflittualità di classe come strumento di trasformazione del Mezzogiorno, Antonio Gramsci si muoveva in direzione esattamente opposta. Il fondatore del partito comunista italiano s’ispirava ai principi rivoluzionari leninisti e agli esiti della rivoluzione russa per proporre la rivolta delle classi contadine come unico strumento di emancipazione del meridione. Con il testo «Alcuni temi della questione meridionale» apparso sulla rivista «Stato Operaio»  del 1930 Gramsci poneva i problemi del meridione al centro della sua analisi dell’intera storia italiana. Propriamente la questione meridionale diveniva parte della questione italiana e la crisi del sud era per Gramsci l’esito del fallimento dell’intero capitalismo italiano. La povertà del sud era il risultato dello sfruttamento da parte dei capitalisti del nord, che prosperavano alleandosi con la borghesia agraria meridionale. Proprio perché problema di carattere nazionale e non solo locale la sua risoluzione avrebbe portato l’intero paese su posizioni rivoluzionarie. Non era stato questo l’esito della rivoluzione russa? Come i contadini si erano accordati con i proletari e avevano condotto sotto la guida dei bolscevichi la battaglia rivoluzionaria, così poteva accadere in Italia. Anzi, secondo la teoria e la prassi leninista, il moto propulsivo rivoluzionario non sarebbe più giunto dal proletariato industriale ma dalle masse contadine impoverite: la rivoluzione era più facile in paesi più arretrati  che in paesi industrialmente più avanzati. In Italia la società socialista sarebbe stata imposta da un nuovo blocco di potere capace di bilanciare e sopravanzare il vecchio blocco agrario-industriale: l’alleanza tra proletariato del nord e le masse contadine del sud, secondo l’ordine lanciato nella terza internazionale. Ma Gramsci era consapevole che il consenso delle classi meridionali era difficile da conquistare e che al nord bisognava sconfiggere il razzismo verso i meridionali, che era assai diffuso sin dall’epoca unitaria. Il problema principale per il partito comunista era comunque quello di penetrare tra le masse contadine del sud, diffidenti verso esiti rivoluzionari, socialmente frammentate e assoggettate agli intellettuali. La borghesia intellettuale meridionale – notai, medici, avvocati, insegnanti - era infatti secondo Gramsci la custode e la garante del potere dei capitalisti del nord, a cui assicurava la pace sociale nel meridione ottenendone in cambio incarichi all’interno delle amministrazioni locali e favori clientelari. Per Gramsci, anche grandi intellettuali come Croce con il sostegno dato al mito del buon governo costituivano un sostegno irrinunciabile per il mantenimento della status quo meridionale, narcotizzando quelle istanze rivoluzionarie delle masse contadine che sole avrebbero potuto risolvere il problema del mezzogiorno. Con le riflessioni di Gramsci finiva la prima parte del dibattito sulla questione meridionale, perché il fascismo, pur approntando misure speciali per cercare di risolvere la situazione, non fu mai disponibile ad una pubblica e sincera disamina della questione. Solo con la nascita della Repubblica, il dibattito riprenderà vigore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




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