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ALL'ITALIA SERVE UNA NUOVA POLITICA ECONOMICA
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- Di Comintern
- Venerdì, 03 Settembre 2021 15:50
A giugno 2021, secondo l’ultima statistica di Banca d’Italia, le famiglie italiane avevano depositato sui conti correnti 1.131 miliardi, 64 miliardi in più rispetto a giugno del 2020. Le imprese d’altro canto, per esigenze di tesoreria, avevano sui conti correnti sempre a giugno di quest’anno 392 miliardi, 60 miliardi in più rispetto a 12 mesi prima. In totale tra famiglie e imprese giacciono su conti correnti ordinari oltre 1.500 miliardi di euro. Una massa di denaro fermo, eroso prima o poi dall’inflazione, e soprattutto a costo zero per le banche. Una montagna di denaro che la dice lunga sul pessimismo degli italiani rispetto al futuro che tende a far aumentare a dismisura le disponibilità liquide, non investite, prontamente smobilizzabili. Un sintomo della preoccupazione per i destini futuri e della sfiducia negli investimenti finanziari. Siano le obbligazioni che ormai non rendono nulla, siano le Borse (che continuano a salire, in assenza di alternative) cui il popolo dei risparmiatori italiani è da sempre poco avvezzo. Le imprese d’altro canto preferiscono accumulare liquidità, non investendo. E dare la colpa al Covid che ha rallentato i consumi, aumentando il tasso di risparmio è riduttivo. Secondo l’associazione delle banche italiane, il totale dei depositi, che forniscono la materia prima della raccolta bancaria e che include non solo i privati ma anche la pubblica amministrazione, ha toccato a giugno di quest’anno la cifra di ben 1.781 miliardi. Erano 1.636 un anno prima e addirittura “solo” 1.336 miliardi nel giugno del 2016. Un incremento formidabile di quasi 450 miliardi di euro in soli 5 anni delle somme tenute sui conti dall’universo Italia. Secondo i dati diffusi da Istat, al lordo dei tabacchi, nel mese di agosto 2021 si stima che l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), registri un aumento dello 0,5% su base mensile e del 2,1% su base annua (da +1,9% del mese di luglio). L’accelerazione (tendenziale) dell’inflazione si deve prevalentemente a quella relativa ai prezzi dei Beni energetici (da +18,6% di luglio a +19,8%) e, in misura minore, ai prezzi degli Alimentari lavorati (da +0,2% a +0,8%) e degli Alimentari non lavorati che invertono la tendenza (da -0,2% a +0,8%). In genere l’inflazione è in crescita a luglio, sia nell’Eurozona (al 2,2% dal 1,9% di giugno) che nella UE (al 2,5% dal 2,2% di giugno) come confermato dall’Ufficio statistico dell’Unione europea (Eurostat) che ricorda come, allo stesso periodo dello scorso anno, il tasso d’inflazione a luglio si era attestato allo 0,4% per l’eurozona e allo 0,9% in UE. Un tasso d’inflazione vicino ma non superiore al 2% viene addirittura auspicato dalla BCE e dalle banche centrali ed è ritenuto positivo perché indica buona salute per l'economia. Infatti una moderata inflazione è il sintomo che i consumi del Paese sono in rafforzamento e stanno alimentando la crescita, che i salari sono in aumento grazie a un mercato del lavoro solido, che la produzione risente di aumenti dei costi che riflettono un’economia in buona salute. Un’inflazione eccessiva, superiore al 2%, ma soprattutto un’inflazione negativa, ovvero deflazione, sono al contrario molto dannose per l’economia perché generano incertezza, sfiducia degli operatori, situazioni che possono determinare non ottimali comportamenti per il contesto economico. Se un’inflazione eccessiva può determinare, per esempio, un clima di sfiducia, generare un rialzo dei tassi di interesse e frenare gli investimenti o i consumi, un contesto di deflazione è ancora peggio perché porta all’immobilismo e induce imprenditori e consumatori a pensare che rinviare a un domani acquisti ed investimenti sia meglio che farlo oggi, dal momento che i prezzi e i costi scenderanno. E questo immobilismo genera un calo della crescita, conducendo quasi inevitabilmente alla recessione. Un’inflazione vicino al 2% è, inoltre, favorevole per i paesi con elevati stock di debito - e quindi per l’Italia - mentre la deflazione è molto negativa per lo stesso motivo in quanto lo stock di debito pubblico accumulato, e da finanziare con nuove emissioni di titoli obbligazionari, è solitamente a prezzi costanti e resta quindi invariato nel tempo mentre il calo del Pil avviene a prezzi correnti, in quanto composto da valori che vengono aggiornati, in questo caso negativamente, con l’inflazione. Ed oggi, il primo macigno che gli italiani trovano sulla loro strada è quello, pesante, del rientro del debito pubblico e quindi la riduzione del rapporto tra il debito pubblico e il Pil. Il governo, in questo frangente, potrà muoversi in due modi: (1) ripagare il debito, agendo sul numeratore per diminuirlo oppure (2) incrementare il Pil, aumentando il denominatore per ridurre il rapporto. Nel primo caso, limitandosi ad un taglio delle tasse per ridurre la pressione fiscale ma senza creare squilibri nella finanza pubblica, bisognerebbe operare veri e propri tagli alla spesa pubblica che renderebbero vani i piani economici del governo legati all’utilizzo dei soldi ricevuti dal «Recovery Fund» che vincola l’utilizzo delle risorse finalizzato agli investimenti pubblici laddove, segnatamente per il nostro Paese, questa strada deve essere percorsa con decisione anche per attivare investimenti privati con l’obiettivo strategico di rilanciare un deciso sviluppo produttivo. Nel secondo caso, l'unica via che oggi appare equa da percorrere, è quella di gestire lo sforamento dei parametri sul debito pubblico mediante un cambio radicale di politica economica. Al nostro Paese servono massicci investimenti pubblici che stimolino quelli privati, forte spinta all'esportazione, aumenti salariali che facciano risalire l'inflazione entro parametri gestibili, incremento della massima occupazione possibile per favorire la massiccia ripresa dei consumi delle famiglie italiane. Una nuova politica economica che rilanci la crescita del Pil, composto da valori che vengono aggiornati con l’inflazione, dovrà essere quindi (moderatamente) inflazionata, sospinta da un aumento del salario medio per favorire il riequilibrio degli indici di debito (Debito/Pil) che tenderanno a scendere e dovrà riuscire a sgretolare il grande timore per il futuro del Paese che attanaglia le famiglie italiane costringendole, di fatto, ad un eccesso di liquidità immobilizzata su conti correnti. L'Italia che vuole ripartire ha di fronte due sfide immani: incrementare il Pil, anche in rapporto al debito pubblico, e portare a regime l'economia rilanciando fortemente lo sviluppo produttivo. Ecco, quindi, che diventa ineludibile impostare una Nuova Politica Economica che, puntando anche su una corretta ed equilibrata gestione dei miliardi che arriveranno dal Recovery Fund, agisca sulla leva inflattiva e salariale, da un lato, e su quella dello sviluppo produttivo e dei consumi, dall'altro. Lo sviluppo produttivo, infatti, dipende dalla domanda che a sua volta dipende dal reddito, che è uguale alla produzione. Un effetto moltiplicatore: l'incremento della domanda fa aumentare la produzione; l'aumento della produzione porta a un aumento del reddito dello stesso ammontare, dato che domanda e produzione sono identicamente uguali; la crescita del reddito aumenta ulteriormente il consumo che a sua volta genera un aumento della domanda e così via. Aumenti salariali e massima occupazione possibile devono necessariamente completare e dare impulso al necessario cambio di passo in politica economica. Se persisterà il clima di forte incertezza c'è il rischio di compromettere l’efficacia degli eventuali stimoli alla domanda e quindi comprimere ulteriormente il Pil, le cui variabili più importanti sono, appunto, i consumi in quanto parte più importante degli impieghi e gli investimenti perché rappresentano il potenziale produttivo del Paese.