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LA PALUDE ITALIANA PUÒ DARE LINFA VITALE ALLA TECNOCRAZIA PROGRESSISTA?

La «tecnocrazia progressista» fu figlia dell’Illuminismo che guardava con fiducia alla ragione e al progresso e cominciò a prendere forma nella società industriale a cavallo tra Ottocento e Novecento. Le caratteristiche principali di questo tipo di tecnocrazia furono  tratteggiate dapprima da Saint‐Simon agli inizi dell’Ottocento e poi successivamente dai movimenti tecnocratici americani e poi ancora fino agli anni ’70 del novecento da importanti intellettuali come Karl Mannheim, Kenneth Galbraith, fino ad arrivare alla società post‐industriale descritta da Daniel Bell e Alain Touraine, dove lo sviluppo di questo tipo di tecnocrazia era finalizzato soprattutto a riequilibrare le contraddizioni del modo di produzione capitalistico attenuando il conflitto tra capitale e lavoro, una conflittualità dalle quale derivavano tutte le crisi. Questo modello di tecnocrazia di “sinistra” entra in crisi durante gli anni ‘70 a causa di molteplici fattori fra tutti lo sviluppo di nuove tecnologie e di nuove forme di produzione così da essere costretta a cedere pian piano la scena ad un altro tipo di tecnocrazia, quella neoliberale che, al contrario della precedente, si trova ad operare in un contesto diverso e cioè quello della globalizzazione. In questo nuovo contesto globale, l’obiettivo delle classi economicamente dominanti non è più quello di stabilizzare e puntellare il capitalismo continuamente minacciato dalle lotte  tra capitale e lavoro, ma quello di liberare potenzialità e creatività individuali per avviare un nuovo ciclo di sviluppo. E in questo processo di cambiamento è inevitabile che non ci sia più spazio di azione per la vecchia “tecnocrazia progressista”, ormai percepita come un ingranaggio obsoleto da smaltire pezzo dopo pezzo. La crisi di sistema degli anni Settanta ha dato vita ad un vero e proprio cambio di egemonia che aprì nuovi spazi per i liberalismi e in particolare per il neoliberismo che prevalentemente mise le sue radici negli Stati Uniti e per l’ordoliberalismo che si sviluppò soprattutto in Europa. Fu proprio l’alleanza tra neoliberismo/ordoliberalismo e conservatorismo a dar vita ad una tecnocrazia nuova, profondamente mutata nella sua natura, che proprio la nuova egemonia liberale finì per rafforzare. E così, dal modello di una tecnocrazia progressista, si passò a quello di una tecnocrazia neoliberale che divenne la solida base di uno Stato sempre più impegnato a promuovere la concorrenza, il mercato, la crescita economica, il managerialismo e l’efficienza. Ingredienti, questi, che trovarono nelle politiche conservatrici di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher la loro massima espressione. Come sottolinea Francesco Antonelli, è proprio in questo momento che avviene una svolta radicale nella storia delle tecnocrazia: se precedentemente, durante l’egemonia progressista, la tecnocrazia veniva definita come “governo dei tecnici” nel quadro dei nuovi liberalismi, essa assume il significato di “governo della tecnica” e cioè diventa un “dispositivo” – giusto per usare un’espressione di Michel Foucault – che dalla sfera economica e politica, dove era stata confinata, si estende nel sociale coinvolgendo ogni sfera dell’esistenza generando un vero e proprio cortocircuito tra “sfera pubblica” e “sfera privata” e i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. Oggi, in Italia, un eventuale governo Draghi potrebbe ridare linfa e credibilità alla «tecnocrazia progressista» a maggior ragione perché sperimentata  in un contesto socioeconomico, quale quello italiano, che ne ha bisogno per fermare l’incombente minaccia del fascismo e della reazione confindustriale. 




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