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PIÙ SALARIO, PIÙ INFLAZIONE PER DIMINUIRE IL RAPPORTO DEBITO/PIL

Gli economisti borghesi sostengono che gli aumenti salariali determinano inflazione, la quale a sua volta comporta minore competitività con l’estero. Gli economisti borghesi "euroscettici" ribattono che l'inflazione può essere accomodata con la flessibilità del cambio quindi uscendo dall'euro. In effetti, sulla flessibilità del cambio per contenere l'inflazione si agiva in Italia negli anni Settanta quando era massimo l’impegno dello Stato per conservare i livelli occupazionali più alti possibile. Verso la fine degli anni settanta, gli economisti liberisti - allorquando maturò la convinzione che l’inflazione fosse da debellare in quanto nociva per la crescita economica e per la coesione sociale - preferirono prendere un’altra strada optando per un regime dei cambi fissi. Questa scelta si tradusse nell’adesione, nel 1979, al Sistema Monetario Europeo (SME) che portò alla separazione tra Tesoro (ministro Beniamino Andreatta) e Banca d’Italia (Governatore Azeglio Ciampi) nel 1981 con il potenziamento del ruolo di quest'ultima nella gestione della politica monetaria, ed alla conseguente liberalizzazione dei movimenti di capitale, creando le premesse per l’esplosione del debito pubblico italiano. Altre due tappe decisive furono, nel 1983, la sottoscrizione del "lodo Scotti" con il quale governo e parti sociali si impegnarono ad una drastica riduzione dell’inflazione da valori prossimi al 20% al 13% nel corso dello stesso anno e, in seguito, nel 1994, nel "decreto di San Valentino" con cui si cominciò a mettere in discussione la scala mobile. Tradizionalmente l’inflazione è riconducibile a vari fattori di natura interna alle singole economie ma è anche determinata da trend global, laddove un tasso d’inflazione, vicino ma non superiore al 2% viene oggi addirittura auspicato dalla BCE banche centrali, ed è ritenuto positivo perché indica la buona salute dell'economia. Infatti una moderata inflazione è il sintomo che i consumi del Paese sono in rafforzamento e alimentano la crescita, che i salari sono in aumento grazie a un mercato del lavoro solido, che la produzione risente di aumenti dei costi che ancora riflettono un’economia in buona salute. Un’inflazione eccessiva, superiore al 2%, ma soprattutto un’inflazione negativa, ovvero deflazione, sono al contrario molto dannose per l’economia in quanto generano incertezza, sfiducia degli operatori, situazioni che possono determinare comportamenti non ottimali per il contesto economico. Per esempio un’inflazione eccessiva può determinare un contesto di sfiducia, generare un rialzo dei tassi di interesse e frenare gli investimenti o i consumi ma un contesto di deflazione è ancora peggiore perché porta all’immobilismo e induce imprenditori e consumatori a pensare che comprare o investire domani sia meglio che farlo oggi, dal momento che i prezzi e i costi scenderanno; questo immobilismo genera un calo della crescita e conduce quasi inevitabilmente alla recessione. Un’inflazione vicino al 2% è, inoltre, favorevole per i paesi con elevati stock di debito - e quindi per l’Italia - mentre la deflazione è molto negativa per lo stesso motivo in quanto lo stock di debito pubblico accumulato, e da finanziare con nuove emissioni di titoli obbligazionari, è solitamente a prezzi costanti e resta quindi invariato nel tempo mentre il calo del Pil avviene a prezzi correnti, in quanto composto da valori che vengono aggiornati con l’inflazione. La crescita del Pil può, quindi, essere inflazionata, favorendo il riequilibrio degli indici di debito (Debito/PIL) che tendono a scendere. Questo oggi serve, disperatamente, all'Italia.




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