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LA NUOVA "VIA DELLA SETA" CINESE: SOCIALIMPERIALISMO

Ill progetto “Nuova Via della Seta” non è un semplice progetto commerciale Chi pensa che le ambizioni cinesi nel mondo puntino soltanto a procurarsi le materie prime necessarie alla propria crescita e a garantirsi le vie di comunicazione per il loro trasporto si sbaglia. Basterebbe guardare cosa succede in Asia e in Europa per cogliere meglio la vastità del disegno strategico dei nuovi "mandarini". Chi nutrisse ancora qualche dubbio sulle reali intenzioni potrebbe vedere a quanto ammontano le spese della Cina in armamenti. Nel settore sono ormai 225 i miliardi di dollari investiti e dal 2008 ad oggi il trend di spesa è più che raddoppiato. L'ultima evidenza riguarda l'incontro che Xi Jinping ha avuto a Pechino con ben 53 Capi di Stato africani cui ha offerto finanziamenti - senza apparenti condizioni politiche - per 60 miliardi di dollari. Vanno ad aggiungersi al precedente centinaio e più miliardi già investiti dal 2015. È utile ricordare che la maggior parte dei finanziamenti cinesi sono destinati a infrastrutture strategiche e che una clausola prevede, quasi sempre, che qualora il Paese ricevente non sia in grado di restituire i prestiti ricevuti le opere realizzate diventino proprietà cinese. Dei nuovi "aiuti", 15 miliardi di dollari saranno "gratuiti e prestiti senza interessi", di 20 miliardi sarà l'ammontare di una linea di credito, 10 miliardi friniranno in un fondo per lo sviluppo dei rapporti fra il paese asiatico e il continente africano, 5 miliardi verranno destinati a favorire le esportazioni dall'Africa verso la Cina ed altri 10 miliardi serviranno da incentivi alle aziende cinesi nei vari paesi africani. Anche in Centro e Sud America, una volta considerati il "giardino di casa" degli Stati Uniti, la presenza di Pechino è sempre più pervasiva. È di pochi giorni l'annuncio che anche El Salvador, così come fece la Repubblica Domenicana lo scorso maggio, riconoscerà la Repubblica Popolare di Cina come l'"unica Cina" e taglierà i rapporti diplomatici con Taiwan. Pechino si è impegnata, in cambio, a fare investimenti nel Paese e, in particolare, a finanziare la realizzazione del locale sistema portuale. Operazioni di tal fatta sono oramai una costante in tutto il continente sudamericano. Infatti, in Nicaragua è un'azienda cinese che sta finanziando la costruzione di un canale che collegherà gli oceani Pacifico e Atlantico senza dover passare da quello di Panama, ufficialmente indipendente ma in realtà sotto controllo statunitense. A proposito di Panama, nel 2017 anche questo piccolo Stato ha rotto i rapporti diplomatici con Taiwan per allacciarli soltanto con Pechino (sono rimasti solo 16 Paesi nel mondo — più il Vaticano — a riconoscere la Repubblica Democratica di Cina e anche questi ultimi sono previsti cambiare presto cavallo. Tra loro il Nicaragua e il Paraguay). Per ciò che succede in Asia basti pensare al mastodontico progetto della "Nuova Via della Seta" cui, inizialmente, tutti hanno aderito entusiasti accalappiati dai dollari supposti in arrivo. Solo in un secondo momento, forse troppo tardi, ci si è resi conto che tutti i porti commerciali previsti portavano con sé l'obbligo di offrire anche supporto logistico a qualunque naviglio militare cinese ne avesse fatto richiesta. Chi se ne è preoccupata per prima è stata l'India (non direttamente coinvolta nel progetto) che ha intravisto le possibili conseguenze sui porti "cinesi" in Sri Lanka e Pakistan. Senza contare che a Gibuti, all'imbocco del Mar Rosso, il porto costruito e gestito dai cinesi è apertamente destinato a scopi militari anche se, ufficialmente, soltanto a causa della presenza dei pirati in quelle acque. Anche in Europa la penetrazione cinese è sempre piu' diffusa. Gli investimenti di capitali sono passati dai due miliardi di euro nel 2010 ai 35 miliardi del 2016, superando negli ultimi cinque anni quelli americani. Occorre non sottovalutare il fatto che sono quasi sempre soldi non privati, bensì decisi e controllati dal Governo di Pechino. I principali oggetti di interesse sono state aziende di media dimensione, ad alta tecnologia e con alta redditività, i marchi del lusso, le proprietà immobiliari e gli strumenti logistici legati direttamente o indirettamente alla distribuzione delle merci. Contemporaneamente, i prodotti cinesi hanno invaso i nostri mercati e le bilance commerciali della maggior parte dei Paesi dell'Unione sono diventate fortemente deficitarie. L'Italia, ad esempio, ha importato nel 2017 per 28,4 miliardi di euro e ha esportato per 13,5 miliardi (fonte Eurostat). La Spagna ha fatto peggio, con un saldo netto deficitario di piu' di 15 miliardi di euro. Comunque sia, l'attenzione cinese verso il nostro continente va ben al di là di una pura questione commerciale. Per capire dimensione e obiettivi della strategia cinese occorre ricordare che il 75 % dell'import europeo arriva via mare attraverso i porti del nord ed è una compagnia di quel Paese a detenere il 35% di Euromax, la società che gestisce il porto di Rotterdam, e il 20% del terminal di Anversa. Poiché il transito via Mediterraneo sarebbe piu' breve, meno caro e darebbe comunque accesso al continente, dal 2009 la COSCO (China Ocean Shipping Company) ha cominciato a fare contratti con il porto greco del Pireo arrivando nell'agosto 2016 ad acquisirne una quota del 51%. Da allora 3/5 delle merci cinesi che arrivano in Europa passano dal Mediterraneo. La stessa COSCO non si è fermata in Grecia: possiede anche il 51% di Noatum, la società che gestisce i porti di Valenza in Spagna e di Bilbao sull'Atlantico. Il terminal container di Barcellona, che è totalmente automatizzato e in tutto il mare una volta "nostrum" può ricevere le navi piu' grandi di ogni altro porto mediterraneo, appartiene già alla società Hutchinson Ports con sede a Hong Kong. Dall'altra parte del Mediterraneo è cinese anche il terzo (per volumi) porto turco di Kumport, vicinissimo a Istanbul, e non va sottovalutato che la Turchia è un partner economico privilegiato dell'Unione. Sempre da cinesi sono costruiti e finanziati i nuovi porti israeliani di Haifa e Ashdod. Per non lasciare le cose a metà, sono sempre società cinesi ad essere i più grandi investitori nella Zona Economica Speciale del canale di Suez mentre, sempre in Egitto, la China Electric Power Equipment and Technology sta tirando 1210 km di cavi elettrici e costruisce una centrale elettrica con potenza di 500KW. Sulla terraferma europea, oltre ad interessarsi di piccoli Paesi come la Moldavia destinati in futuro a diventare possibili membri dell'Unione o almeno a godere di esenzioni doganali, Pechino sta finanziando, tra l'altro, la nuova autostrada Belgrado-Budapest nei Balcani. Altre quote di partecipazione si trovano in varie società ferroviarie. Il vero problema di tutte queste azioni cinesi in Europa e nel Mediterraneo è che la loro presenza non si limita a garantirsi le vie d'accesso ad un mercato particolarmente ricco ma punta ad acquisire il controllo sulle società di gestione delle infrastrutture. Il risultato è di diventare i padroni reali delle attivita' e di poter così decidere man mano, secondo convenienza, quale approdo, o via di comunicazione, privilegiare anche a scapito delle altre controllate. È facile immaginare il potere di condizionamento che ne deriva sui Governi a causa delle ricadute in termini economici e occupazionali. Per quanto riguarda l'Italia, basta ricordare che il nostro è uno dei Paesi ove la bassa crescita e la crescente debolezza dell'economia rendono molto economiche e facili le acquisizioni. Fino ad ora gli investimenti cinesi hanno privilegiato Germania e Gran Bretagna mentre Italia e Francia sono rimaste al terzo e quarto posto. Negli ultimi sei anni le cose han cominciato a cambiare. Se nel 2013 erano arrivati poco più di un miliardo di euro e nel 2014 quasi 2miliardi e mezzo, nel 2015 sono stati sette miliardi e duecento, per scendere leggermente negli anni successivi. Di fatto la Cina è oggi il decimo investitore nelle aziende italiane quotate in Borsa. Il progetto "Nuova Via della Seta" non è un semplice progetto commerciale. È il mezzo attraverso cui Pechino punta a espandere la sua influenza e la sua presenza strategica nell'Asia del Sud, in Medio Oriente, in Europa e perfino in Russia. Col tempo e gradualmente, abitua e poi impone al nuovo vassallo anche la propria lingua, cultura e abitudini. Controllare le infrastrutture, i nodi cruciali dell'economia e magari tenere sotto scacco le locali istituzioni significa comandare senza correre i rischi di doversi sobbarcare anche i problemi del suddito.

Salerno, 13 ottobre 2018




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