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SULLA QUESTIONE DELLE FOIBE

Ogni anno, in un dato giorno - cosiddetto “del ricordo” - sì parla (in maniera parziale e strumentale) degli avvenimenti accaduti a Trieste nel 1945 (la cosiddetta “questione delle foibe”) non preoccupandosi minimamente di analizzare lucidamente, onestamente, politicamente gli avvenimenti che accaddero non solo a Trieste – bensì anche in tutta la Jugoslavia – tra il 1943 ed il 1945 e non solo nella città giuliana dopo l’arrivo delle truppe titine.    
Non ci stupisce certo che proprio in questi tempi, segnati dalla volontà della borghesia e dei suoi politici in camicia nera di portare a compimento il processo di revisione e di riabilitazione del ventennio mussoliniano, di "pacificazione e riconciliazione nazionale'', di cancellazione della storia e dei valori dell'antifascismo a cui fa da contraltare lo sviluppo di una violenta campagna anticomunista, torni in auge la questione delle foibe, da sempre strumentale "cavallo di battaglia'' della propaganda fascista. E, come tale, hanno scelto di trattare questa questione astraendo sostanzialmente dal quadro storico che, a partire dalle cause che li hanno generati, segna lo sviluppo degli avvenimenti di quegli anni. Ciò che in buona sostanza si tenta di accreditare e contrabbandare come convincimento generale a livello di massa è che le foibe siano l'espressione diretta della ferocia antiitaliana e che gli "infoibati'' siano "martiri'' di un preordinato sterminio etnico perpetrato dalla resistenza, dai partigiani e dai comunisti jugoslavi.    
Quelli che qui sono in gioco non sono i "sentimenti umani''; ma la responsabilità storica e politica di avvenimenti alla cui origine stanno lo snaturamento dell'identità nazionale del popolo jugoslavo e dei suoi diritti, le vessazioni a cui è stato sottoposto dall'imperialismo, dal nazionalismo e dal fascismo italiani prima e, in seguito, dall'aggressione e dall'occupazione nazifascista.    
è necessario quindi smascherare lo stravolgimento di quegli avvenimenti, a cui si sono accodati e su cui si sono appiattiti nel tempo, tutti i partiti istituzionali. Ci soffermeremo qui su tre aspetti imprescindibili.    

1. La politica fascista nei territori slavi annessi all'Italia alla fine della I guerra mondiale    
La conclusione della I guerra mondiale mutò radicalmente gli equilibri politici internazionali e ridisegnò i confini geografici di numerose nazioni.    
I nuovi scenari geo-politici scaturirono dagli accordi e dai diktat emersi dalla Conferenza di pace apertasi a Parigi, nel palazzo di Versailles, il 18 gennaio 1919 ed alla quale parteciparono le rappresentanze di ventisette Stati. Dalla Conferenza emersero le nuove ambizioni imperialistiche e, con esse, i contrasti tra i paesi imperialisti emergenti e si delineò altresì, la supremazia di Stati Uniti, Francia e Inghilterra. L'Italia in particolare, vide ridimensionate le sue ambizioni espansioniste. Le richieste presentate a Parigi dal primo ministro Orlando in virtù di alcuni articoli segreti stabiliti nel Trattato di Londra del 1915 (Trentino, Tirolo, vaste zone balcaniche, colonie dell'Anatolia e dell'Africa), vennero osteggiate e rimesse in discussione da Wilson, Clemenceau e Lloyd George. Orlando, che in un primo tempo aveva abbandonato la Conferenza, rientrò a Parigi accettando quanto stabilito dalle tre maggiori potenze.    
Con la firma del trattato di pace da parte dell'Austria il 10 settembre 1919 nel castello di Saint Germain, all'Italia andarono Trento, il Sud-Tirolo, Trieste e parte dei territori slavi meridionali. La mancata annessione di tutti i territori rivendicati fece crescere in Italia la protervia del nazionalismo e del nascente fascismo sfociata, il 12 settembre 1919, nella banditesca azione del manipolo guidato da D'Annunzio dell'occupazione di Rijeka (Fiume).    
La soluzione al contenzioso territoriale tra il Regno d'Italia e il Regno dei serbi-croati-sloveni (denominato Regno di Jugoslavia nel 1929) si ebbe con il Trattato di Rapallo firmato il 12 novembre 1920. Il confine orientale vedeva annessi all'Italia territori ad etnia mista italo-croata e italo-slovena (concentrate soprattutto nelle città), ma anche zone totalmente slovene comprendenti complessivamente una popolazione di circa mezzo milione di persone tra sloveni e croati.    
Il fascismo al potere in Italia significò per tutte le minoranze nazionali presenti nel paese, l'inizio di una violenta campagna di discriminazione, di negazione di diritti fondamentali e di italianizzazione forzata. E questa campagna trovò l'apice più virulento proprio ai danni della minoranza slava, nei confronti della quale il regime manifestò un'avversione dettata da un profondo disprezzo di natura razzista. Il programma di snazionalizzazione imposto dal fascismo portò alla soppressione totale delle istituzioni nazionali slovene e croate, al divieto dell'uso del serbo-croato e all'imposizione dell'italiano come unica lingua nelle scuole e negli uffici pubblici. Venne attuata l'italianizzazione delle principali città con il trasferimento in esse di popolazione italiana. Nelle scuole furono licenziati gli insegnanti di madrelingua e vi fu una forte limitazione all'assunzione di impiegati sloveni negli uffici pubblici. Scomparso ogni diritto a tutela della identità slava, si arrivò perfino alla italianizzazione forzata dei cognomi.    
Anche la gerarchia ecclesiale vaticana aderì a questa politica rimuovendo dall'incarico i vescovi slavi di Trieste e Gorizia e abolendo l'uso della lingua slovena nelle funzioni liturgiche e nella catechesi.    
Di pari passo all'attuazione del programma di snazionalizzazione, le squadracce nere avevano campo libero per compiere le loro azioni criminali. Vi fu uno stillicidio di attacchi e di devastazioni di sedi di circoli e di organizzazioni slave e di sistematiche aggressioni a persone che cercavano di opporsi alla politica del regime o che manifestavano un qualche dissenso verso di essa.    
L'opposizione alla politica mussoliniana si sviluppò essenzialmente su due direttrici: una di tipo nazionalista e irredentista, basata su gruppi chiusi e su azioni dimostrative anche di tipo terroristico che il regime utilizzò per cercare di dare giustificazione all'inasprirsi dell'azione repressiva; l'altra che, accanto alla salvaguardia dell'identità nazionale, sosteneva la necessità dell'allargamento e del radicamento della lotta antifascista tra la classe operaia e le masse popolari delle diverse etnie presenti in quei territori.    
La repressione dell'opposizione fu durissima e tuttavia il regime non riuscì mai a "normalizzare'' la situazione in quei territori. Il Tribunale speciale iniziò la sua nefanda opera in quella zona nel febbraio del 1927. E tra il 1927 e il 1943, solo contro imputati sloveni e croati, ci furono centotredici processi. Le condanne furono sempre durissime. Trentaquattro antifascisti sloveni vennero condannati a morte, mentre ad altri 581 vennero inflitti complessivamente 5.418 anni di reclusione. Tra le vittime di questa spietata azione repressiva, moltissimi furono i militanti comunisti.  

2. L'attacco nazifascista alla Jugoslavia    
All'alba del 6 aprile 1941 l'aviazione della Germania nazista sferrava un violento bombardamento su Belgrado, radendo al suolo interi quartieri della città e provocando la morte di circa diecimila persone tra la popolazione civile. Contemporaneamente in più punti del Paese, truppe di invasione tedesche, italiane, bulgare e ungheresi violavano i confini dello Stato balcanico. Cominciava così l'invasione nazifascista della Jugoslavia che, secondo le intenzioni di Hitler, doveva portare allo smembramento e alla scomparsa del regno jugoslavo come nazione. Il 15 aprile il re e il governo fuggirono in Grecia per rifugiarsi poi in Inghilterra, e dopo soli undici giorni di combattimento il 17 aprile i rappresentanti militari di Belgrado si arresero al generale Von Weichs. La spartizione del territorio jugoslavo tra gli occupanti portò la gran parte della Serbia e della Slovenia sotto il controllo tedesco, la Macedonia alla Bulgaria e la zona di Novi Sad all'Ungheria.    
La Croazia fu formalmente eretta a regno indipendente. In realtà si creò uno Stato fantoccio con il duca Aimone di Savoia nominato re e la guida del governo assegnata all'ustascia fascista Ante Pavelic. L'Italia ricevette Lubiana e la zona meridionale della Slovenia, parte consistente del litorale della Dalmazia e alcune zone della Bosnia, del Montenegro e del Kossovo.    
L'occupazione nazifascista scatenò in Jugoslavia una vera e propria campagna di terrore e di oppressione che si avvalse anche dell'apporto dei gruppi collaborazionisti della destra nazionalista che approfittarono della situazione per fomentare e realizzare un sanguinario clima di odio etnico e religioso. Particolarmente efferati furono i massacri compiuti dagli ustascia di Pavelic contro le popolazioni di nazionalità serba e di religione ortodossa in Croazia e Bosnia-Erzegovina e quelli dei collaborazionisti cetnici contro i cattolici croati.
Nella Venezia-Giulia e nei territori annessi dall'Italia dopo l'invasione si inasprì ulteriormente la repressione poliziesca e giudiziaria, alle quali si aggiunse anche quella dei reparti militari. Nel dicembre 1941, ad esempio, dopo una sentenza del Tribunale speciale vennero fucilati a Trieste cinque esponenti del Fronte di Liberazione sloveno, ad altri cinquanta imputati vennero inflitti 666 anni di reclusione, mentre altri ancora non arrivarono neppure al processo perché morirono a seguito delle torture a cui furono sottoposti in carcere.
I reparti militari si dedicarono a sistematiche azioni contro i paesi e le popolazioni civili delle zone annesse.    
Molti villaggi del retroterra delle province di Trieste, Gorizia e Rijeka (Fiume) vennero attaccati dai reparti militari, alcuni furono incendiati, migliaia di civili deportati, altri assassinati in esecuzioni sommarie e arrestati. I popoli della Jugoslavia pagarono con un altissimo tributo di sangue, circa un milione di morti, le nefande azioni degli invasori nazifascisti; mentre altre settecentomila furono le vittime della lotta di Liberazione e della guerra.
Se al regime di Belgrado mancò la volontà e la capacità di opporsi al nazifascismo, non così fu per il popolo jugoslavo. La classe operaia e le masse popolari infatti seppero organizzare una attiva e forte resistenza agli invasori che iniziò già nell'estate del 1941, immediatamente dopo l'attacco hitleriano all'Unione Sovietica. Fu una vera e propria guerra di popolo il cui esercito di uomini, donne e giovani delle varie zone del Paese composto all'inizio da circa quindicimila combattenti andò via via ad ingrossarsi fino a superare le ottocentomila unità. Una guerra di popolo che seppe anche sviluppare, attraverso la lotta di Liberazione, il processo rivoluzionario che portò il 29 novembre 1945 alla proclamazione da parte dell'Assemblea Costituente, della Repubblica Popolare Federativa di Jugoslavia. La forza principale nella organizzazione e nella direzione del Movimento partigiano e della Resistenza, specie dopo il tradimento operato dai militari nazionalisti cetnici del generale Mihailovic passati al collaborazionismo attivo, fu il Partito comunista jugoslavo che nell'ottobre 1940 aveva svolto a Zagabria la sua quinta Conferenza nel corso della quale venne eletto il nuovo CC e confermato Tito alla carica di segretario generale.    
Abbiamo visto come il confine stabilito nel Trattato di Rapallo, avesse annesso all'Italia un territorio abitato da oltre un quarto della popolazione slovena. Le borghesie italiana e slovena avevano accondisceso a questa soluzione accettando l'una la piena legittimità del diritto italiano a quelle terre e l'altra a riconoscere l'annessione all'Italia per cercare di arginare l'avanzata della lotta rivoluzionaria in Slovenia. Radicalmente divergenti da questa posizione erano i sentimenti popolari e della classe operaia dei due paesi, specie dopo l'avvento al potere del fascismo in Italia e l'attuazione della feroce politica di snazionalizzazione contro la popolazione slovena.    
Nell'aprile del 1934 i partiti comunisti italiano, sloveno e austriaco sottoscrissero una dichiarazione comune sulla questione slovena. In essa si affermava tra l'altro: "la violenta spartizione del popolo sloveno tra i due Stati imperialisti vincitori, la Jugoslavia e l'Italia, che è stata compiuta lasciando all'Austria una frazione degli sloveni, ha avuto come conseguenza che i territori sloveni sono diventati il teatro della lotta nazional-rivoluzionaria delle masse del popolo sloveno, e, in pari tempo, il campo dei più intensi intrighi e trame imperialistiche, strettamente collegate con la preparazione di una nuova guerra. Nel periodo del nuovo ciclo di guerre e di rivoluzioni, di cui siamo alla vigilia, la questione slovena può diventare, o una leva della rivoluzione degli operai e dei contadini, liberatrice dei popoli oppressi, oppure uno strumento della controrivoluzione imperialistica''.    
La giusta soluzione del problema, indicata nella dichiarazione, stava nella proclamazione del diritto di autodecisione del popolo sloveno fino anche alla separazione dalla Jugoslavia, dall'Italia e dall'Austria; lo stesso diritto veniva peraltro riconosciuto agli italiani, ai croati ed ai tedeschi presenti in Slovenia. La lotta per l'unificazione del popolo sloveno attraverso il diritto all'autodecisione deve collegarsi, si sottolineava nella dichiarazione, alla lotta contro la borghesia per l'instaurazione del potere socialista. "Questo legame - continuava la dichiarazione - è indispensabile... perché il popolo sloveno potrà raggiungere la propria liberazione ed unificazione solo attraverso la lotta rivoluzionaria sotto la direzione della classe operaia e in alleanza con il proletariato della nazione dominante... Soltanto la lotta comune dei lavoratori della nazione slovena e della nazione dominante assicurerà il successo, la vittoria sui nemici e sugli oppressori''. E’ su queste basi che il proletariato, gli antifascisti e i comunisti italiani e sloveni si mossero negli anni bui della tirannia fascista.    

3. L'esplosione dell'odio popolare contro i criminali fascisti e i loro lacché dopo l'8 settembre '43    
Quando l'8 settembre 1943 l'Italia firmava l'armistizio, vaste zone del Friuli, della Venezia-Giulia, della Slovenia e dell'Istria erano controllate dalle formazioni partigiane italiane, slovene e croate. Il disfacimento del regime portò allo sfaldamento degli organi di gestione e di controllo del potere mussoliniano a cui si sostituirono le prime forme embrionali di governo da parte del Fronte di Liberazione sloveno e croato. Il Movimento di Liberazione proclamò i territori delle province di Trieste e Gorizia e di Pola e Fiume annesse rispettivamente alla Slovenia ed alla Croazia. Fu in questa situazione, tutt'altro che stabilizzata sul piano della sicurezza e del controllo militare, che in Istria nel settembre 1943 alcune centinaia di persone: fascisti italiani (squadristi, gerarchi e funzionari delle istituzioni del regime); slavi (collaborazionisti e ustascia) e soldati tedeschi, molti dei quali già sul punto di scappare per non dover rendere conto del proprio operato, furono giudicati colpevoli di crimini contro la popolazione locale e quindi passati per le armi dai partigiani slavi e italiani e i loro corpi infoibati    .
La propaganda fascista parlò, allora come oggi, dello sterminio etnico di migliaia di italiani. Tutti gli atti risultanti dalle indagini e dalle ricerche svolte nel dopoguerra, anche da parte occidentale, e suffragate da una puntuale documentazione, hanno stabilito che furono circa cinquecento le persone uccise e infoibate nel 1943 in Istria, senza poter altresì smentire in alcun modo quanto, su quegli avvenimenti, ebbe ad affermare il PC croato già nel settembre del 1944. "La reazione - si legge nella dichiarazione dei comunisti croati diramata il 29/9/44 - cercherà di sfruttare ancora le foibe affermando che allora si tentò di distruggere gli italiani dell'Istria e che quella fu la manifestazione di uno sciovinismo croato. Noi sappiamo benissimo che nelle foibe finirono non solo gli sfruttatori e assassini fascisti italiani, ma anche i traditori del popolo croato, i fascisti ustascia e i degenerati cetnici. Le foibe non furono che l'espressione dell'odio popolare compresso in decenni di oppressione e di sfruttamento, che esplose con la caratteristica violenza delle insurrezioni di popolo''.    
Una oppressione e uno sfruttamento fatti di crimini e atrocità che ancora e fino alla fine del II conflitto mondiale dovranno subire le popolazioni di quelle regioni da parte dell'esercito nazista, delle SS, dei fascisti della "Rsi'' e dei reazionari slavi.    
Immediatamente dopo l'8 settembre 1943 l'esercito tedesco puntò ad assumere direttamente il controllo delle zone precedentemente occupate dall'Italia. La costituzione il 1° ottobre 1943 della "Zona d'Operazione Litorale Adriatico'' coincise con lo scatenamento di una brutale controffensiva nazista. Il comando della zona d'operazione fu affidato a Friedrich Reiner, mentre a capo delle SS e della polizia venne nominato il generale Globocnik, criminale nazista già responsabile dello sterminio di due milioni di ebrei polacchi. Fu questo uno dei momenti più tragici e sanguinosi del conflitto contrassegnato dalla violenta offensiva militare degli invasori nazisti e dalla loro ferocia repressiva attuata con l'attiva partecipazione dei fascisti italiani riaggregati nella "repubblica di Salò'', degli ustascia e dei cetnici a cui si aggregarono anche migliaia di cosacchi e caucasici, bande di traditori e di controrivoluzionari alleate dei nazisti nella guerra contro l'Urss di Stalin, e che ora erano in fuga dopo essere stati sbaragliati dall'Armata Rossa sovietica. Innumerevoli furono le devastazioni e i saccheggi di paesi e villaggi, le distruzioni delle risorse economiche e del territorio, le torture e gli eccidi ai danni della popolazione civile, gli stupri contro donne e ragazze, per finire con i rastrellamenti e le deportazioni per lo più senza ritorno, nei campi di prigionia e nei lager, tra cui la Risiera di San Sabba a Trieste, tragico simbolo in Italia della barbarie nazifascista.    

4. La Resistenza antifascista italo-slava    
Ciò che permise di sconfiggere tutto questo fu la lotta comune del proletariato e delle masse popolari italiane e slave, l'azione congiunta della Resistenza antifascista italo-slava, il valore e l'eroismo dei combattenti delle Brigate Partigiane italiane e dell'Esercito Popolare di Liberazione jugoslavo, caduti a migliaia nella lotta di Liberazione, il cui spirito di sacrificio e i cui meriti rimarranno scolpiti per sempre nel cuore e nella memoria del proletariato e delle masse popolari antifasciste italiane e delle nazioni slave.
Le principali forze e organizzazioni combattenti in queste regioni furono in campo jugoslavo il VII e IX Corpus sloveno e la IV Armata dell'EPLJ e in campo italiano: le Divisioni Garibaldi-Friuli e Garibaldi-Natisone, i Gruppi di Azione Partigiana (GAP) operanti in Friuli ed a Trieste, Monfalcone e Muggia. Nel corso del 1944 nacquero inoltre formazioni partigiane formate da combattenti cattolici, del Partito d'Azione e da reduci della divisione alpina Julia; nell'aprile del 1944 alcune centinaia di militari italiani formarono nell'area delle province di Gorizia e Trieste il battaglione triestino del Carso che dopo un accordo raggiunto con le Divisioni Garibaldi e il IX Corpus sloveno formerà la Brigata Garibaldi Trieste; in Slovenia dal dicembre 1944 è attiva alle dipendenze del VII Corpus la Brigata Fratelli Fontanat composta da circa 750 uomini in prevalenza operai dei cantieri navali, studenti e militari; mentre in Istria agiscono dall'aprile 1944 il Battaglione Alma Vivoda e il Battaglione Pino Budicin inquadrato nella brigata croata "Vladimir Gortan''.    
Furono queste forze e questi combattenti che ottennero la vittoria nella lotta di Liberazione contro il nazifascismo, affrancando i territori occupati. Tra la fine di aprile ed il 1° Maggio 1945 i partigiani liberarono Udine e tutto il Friuli e il 1° Maggio entrarono vittoriosi in Trieste il IX Corpus sloveno e la IV Armata jugoslava.
Il periodo che va dal 2 maggio al 12 giugno 1945 vede sui territori della Venezia-Giulia e dell'Istria la presenza militare delle truppe degli Alleati e quelle dell'Eplj e sul piano politico la rivendicazione dell'Avnoj (Consiglio antifascista di liberazione jugoslavo) di quei territori come parte integrante della Jugoslavia - dove era ormai consolidato sul piano della volontà popolare il processo rivoluzionario che porterà alla costituzione della Repubblica Popolare Federativa di Jugoslavia (Rpfj).    
Una rivendicazione che, come precedentemente detto, era già stata esplicitata all'indomani dell'8 settembre '43. L'abbandono del principio del diritto all'autodecisione aveva generato contrasti, anche seri, nelle relazioni tra comunisti italiani e jugoslavi in un momento peraltro cruciale della lotta di liberazione. Contrasti ricomposti, anche se non in maniera definitiva, con gli accordi intervenuti il 4 aprile e il 7 maggio 1943, che stabilivano la necessità della comune lotta contro il nazifascismo e la soluzione delle problematiche politiche inerenti ai confini e ai rapporti statali alla conclusione del conflitto. Una posizione questa condivisa dal Movimento comunista internazionale. Ancora nel gennaio del 1945 il PCJ rivendicò l'annessione di Trieste, dei territori slavi e delle zone miste alla Jugoslavia in un incontro che Hebrang - membro dell'Up del PCJ e del Comitato di Liberazione Nazionale Jugoslavo - ebbe a Mosca con Stalin e Molotov soprattutto per concordare forme di aiuto economico e militare dell'Urss alla Jugoslavia. In quell'occasione i dirigenti sovietici ribadirono a Hebrang che tale questione poteva trovare soluzione solo sul piano politico-diplomatico sulla base della volontà espressa dalle popolazioni coinvolte nel problema e non sulla base di azioni di forza unilaterali.

5. La questione delle foibe e la nascita della nuova Jugoslavia    
Fu proprio nei giorni precedenti gli accordi del 12 giugno tra il governo jugoslavo e gli alleati che stabilirono per la cosiddetta "zona A'' (Trieste Gorizia e Pola) l'amministrazione "alleata'' e il controllo della "zona B'' (la parte restante della regione, l'Istria e Fiume) alla Jugoslavia, che si acutizzò lo scontro delle forze ostili al nuovo governo rivoluzionario nel tentativo di mettere in discussione la nascita della nuova Jugoslavia proprio mentre si insediavano e cominciavano a operare le nuove istituzioni del paese. E fu questo il momento in cui i fascisti, i nazisti, i collaborazionisti di ogni sorta e i controrivoluzionari jugoslavi, dovettero assumersi la piena responsabilità della loro politica e delle loro azioni. In questa azione di giustizia tanto necessaria quanto difficile, saranno sicuramente stati emessi verdetti errati per alcune persone così come si saranno verificati casi di vendette personali; ma questo non può assolutamente costituire un fattore di alterazione e di falsificazione di quegli avvenimenti.    
Vi è una connessione stretta e ineludibile, un filo conduttore che lega particolari e contingenti avvenimenti quali le foibe, la detenzione dei prigionieri di guerra, il cosiddetto esodo degli italiani d'Istria, alla politica fascista della snazionalizzazione, all'aggressione nazifascista della Jugoslavia, all'occupazione militare italiana, all'attività nazista nel "Litorale Adriatico'', alla persecuzione antifascista e antiebraica.    
E' necessario quindi ribadire con forza verità e responsabilità sugli avvenimenti di quegli anni, fuori dall'ottica delle falsità prodotte dalla propaganda fascista sia sul piano quantitativo (il numero dei morti ritrovati nelle foibe) che su quello storico, e dentro, invece, allo sviluppo organico della politica nazifascista.
Sul piano dei rapporti fra Stati, l'Italia ha disatteso alla salvaguardia dei diritti della minoranza slava e l'Italia ha fatto carta straccia del Trattato di Rapallo attaccando la Jugoslavia nel 1941 e annettendosi i territori della "provincia di Lubjana''. Sul piano della responsabilità politica, la snazionalizzazione delle popolazioni slave, l'invasione e lo smembramento di un intero Stato, l'oppressione sanguinaria delle popolazioni civili sono alla base della rivolta e della richiesta di giustizia delle masse popolari italiane, slovene e croate. Sul piano della verità, le foibe non rappresentano affatto il simbolo del genocidio della popolazione italiana e dell'odio antiitaliano. Non ci fu nessuno sterminio etnico contro gli italiani, ma una comune rivolta contro gli aguzzini fascisti, nazisti, ustascia e collaborazionisti macchiatisi di ogni sorta di crimini.    
Una lotta di Liberazione contro la barbarie nazifascista e per la riappropriazione della libertà e dell'indipendenza nazionale. E l'esempio principale è dato proprio dalla lotta unitaria dei diversi popoli, dalla lotta unitaria delle diverse organizzazioni e formazioni partigiane, dall'aiuto generoso dato dalle popolazioni slave a migliaia di soldati italiani in rotta dopo l'8 settembre 1943 e braccati dai loro ex alleati tedeschi. Soldati che erano invasori ma che devono la loro salvezza e la loro libertà al popolo jugoslavo e a quanti mettendo a repentaglio la loro stessa vita, li hanno sottratti alla vendetta nazista.

E'nostro dovere impedire a chiunque di gettare fango sulla lotta di Liberazione e sui partigiani. Gli ideali e i valori della Resistenza e dell'antifascismo sono e devono rimanere un patrimonio indelebile della nostra storia, del nostro popolo e dell'intera umanità.




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